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Il cameriere mi guarda e strabuzza gli occhi. Lo vedo in evidente difficoltà. Si gira intorno. Cerca aiuto e non lo trova. Si scusa e mi dice che può capitare. Accetto le scuse e rispondo che no, non può capitare in un ristorante di quel livello, ospitato in un hotel di quel livello, all’interno di una città di quel livello. Il cameriere incassa e si dilegua. Al suo posto arriva Patrick, l’assistente del restaurant manager. Continua a scusarsi, a chiacchierare, ad offrirmi attenzioni, dessert e parole altrettanto dolci. Addirittura pretende di non farmi pagare il conto.

Vi chiederete il motivo di tutto questo caos. Semplice: ho trovato un pezzo di plastica nel mio secondo di pesce.

Stop. Partiamo dal principio.

Mi trovo a Parigi, nell’hotel Four Season George V, uno degli alberghi più belli e importanti d’Europa. Al suo interno Le Cinq, il ristorante tristellato di Christian Le Squer, chef dalla gigantesca storia. Tre stelle dal 2002, dal 2013 nel circolo dei cuochi a cui sono assegnate le “Le Cinq toques” dalla guida Gaul Millau, nel 2016 viene eletto come miglior chef dell’anno. Chiaramente, come è ormai consuetudine, avendo altri ristoranti da dover gestire, per di più stellati, Le Squer non è al Le Cinq.

Prima o poi troverò uno di questi cuochi ai fornelli? La speranza è l’ultima a morire…

Un grande genio della cucina merita una strepitosa location e il Four Season George V di Parigi lo è assolutamente. Al suo interno, oltre a Le Cinq, ospita altri ristoranti stellati, in più, grazie al lavoro del direttore artistico statunitense Jeff Leatham le ampie e meravigliose sale che può vantare sono abbellite da composizioni floreali da capogiro.

Tutto splendido: ma è per la cucina che siamo venuti.

La sala, alla quale si accede attraverso un piccolo chiostro, può contenere almeno 60 commensali: non saremo più di 12. Il restaurant manager mi spiega che questo è un privilegio che hanno solo i ristoranti ospitati in hotel di lusso: possono garantire un servizio impeccabile e materie prime di altissimo livello anche servendo poche persone e rinunciando a qualcosa nei guadagni. In più, mi continua a raccontare, l’albergo lamenta un calo di visite: gli europei latitano e gli ospiti sono quasi tutti asiatici.

Dopo una conversazione, amabilissima e tutta in francese e l’amuse-bouche, della quale mi colpisce un triangolino di pizza con perle di basilico, pomodoro e olive che mi stuzzica meravigliosamente l’appetito, passo all’ordine vero e proprio.

Posso scegliere tra due menù: un gourmet semplice e un gourmet lunch. Vado sul secondo e precisamente su quello da quattro portate.

Ordino anche il vino: il sommelier, bravo e preparato, mi dice che la bottiglia che ho scelto, per qualità-prezzo, è la migliore etichetta della loro cantina, composta tra l’altro da quasi 50.000 bottiglie, tutte all’interno dell’hotel.

Il menù si compone di asparagi, zuppa di cipolle, un grigliato di dentice e una mousse di caffè. La zuppa è il piatto che maggiormente mi convince: non c’è liquido all’esterno, ma sono le cipolline a contenere una crema che, una volta rotto l’ortaggio, si riversa nel piatto. A proposito: tutte le verdure sono fornite da Asafumi Yamashita il cosiddetto agricoltore di “alta moda” che nel suo piccolo giardino di Yvelines coltiva prodotti da vendere ai ristoranti famosi e ogni anno vola in Giappone in cerca di semi molto speciali.

E’ il momento del main course: il grigliato di dentice, quello dove trovo il pezzo di plastica che manda in crisi la sale e il servizio. Da quel momento Patrick non mi molla un attimo: continua ad offrirmi dolci, mi porta nelle cucine (ce ne sono quattro nel Four Season e la più grande è proprio quella de Le Cinq) dove conosco una brigata di addirittura 25 persone!

Intanto chiedo il conto e un espresso: tanti tra di voi mi hanno chiesto come fosse il caffè nei ristoranti tristellati. Ora posso rispondere: pessimo.

Il conto, invece, non arriva. Patrick mi dice che visto l’inconveniente la cena è offerta da Le Cinq. Protesto: voglio pagare. Dalla direzione una sola risposta: non se ne parla. Inizia un tira e molla lunghissimo che finisce con la vittoria del ristorante. Mi alzo, saluto e non pago.

Premessa d’obbligo: questa decisione, che non condivido (io ad esempio avrei semplicemente tolto il prezzo del dentice e fatto pagare il resto), per il rispetto che do e pretendo, non mi impedisce di esprimere giudizi.

Il ristorante non mi ha stupito né entusiasmato. Così come i suoi piatti. Bellissimo l’hotel, meravigliose le sale e le scene montate da Leatham ma nulla di più. Il pezzetto di plastica nel dentice, poi, ha il suo peso che non posso ignorare.

Giudizio finale: tre barbe. Senza infamia e senza lode.  



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