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Stringo il mento con la mano destra.

Lo faccio per ritrovare la stabilità che mi sembra di aver perso.

Lo faccio per pensare, per riflettere su quanto mi succede.

Stringo.

Ci metto tutta l’energia che possiedo. Stringo talmente tanto forte che il labbro inferiore si deforma appena, dando alla mia faccia un’aria distaccata e perplessa. In effetti credo di non aver mai avuto mai tanti dubbi come questa sera. Ho la psiche in overbooking di interrogativi: il loro peso rischia di far crollare i muri che ho costruito per separare la vita dal lavoro.

Ho paura di essere invaso.

E allora continuo a stringere: non mollo la presa neanche per un secondo. Anzi, rilancio, se possibile: mando l’indice a controllare la guancia, con la scusa di un massaggio delicato alla barba. Do fiducia a quel gesto: lo vedo capace di regalarmi l’illuminazione giusta. Un movimento a semicerchio per conciliare le parole che sto cercando per raccontarmi e raccontarvi.

Non esistono.

Lo dimostra la mia faccia che, improvvisamente, assume un’espressione non programmata. Gli angoli della bocca si curvano verso il basso, mentre la gola si lascia andare ad una sola sillaba: “Mah!”.

Commento unico e generalizzato per quello che ho mangiato e bevuto.

“Mah!”

Non ho detto altro per tutta la serata.

Pensavo di chiudere meglio il mio breve ma intenso rapporto con Hong Kong: T’ang Court, invece, il ristorante di chef Kwong Wai Keung, si è rivelato una delusione in tutti i sensi. Tre stelle Michelin dal 2016, è ospitato all’interno di uno stupendo hotel cinque stelle extralusso: The Langham. La pulizia e l’eleganza di una delle strutture più belle del posto, però, non impediscono al T’ang Court di laurearsi come peggior locale tristellato di tutta Hong Kong: non ha niente di straordinario e soprattutto niente di buono. Immaginate che sono riuscito a fare solo quindici foto. Proprio io, che solitamente rimbambisco di immagini la mia redazione.

L’inizio, però, non era stato dei peggiori: la sala di T’ang Court è bella e elegante. I tavoli sono meravigliosi, così come le tende alle finestre e alle pareti. I colori ricorrenti sono il rosso e l’oro, a richiamare lo sfarzo della Cina Imperiale.

Decido di scartare i menù degustazione e di ordinare alla carta. Un errore? Lo valuteremo tra qualche settimana…

Per prima cosa chiedo un tè verde: arriva al tavolo accompagnato da quello che, secondo lo chef dovrebbe essere un antipasto. Niente di più lontano: sembra veramente il piatto servito nel ristorante cinese che puoi trovare sotto casa. Parliamo di un gambero fritto (anche male…), accompagnato da un’insalatina e una foglia di una pianta che nemmeno il cameriere sa spiegare. A chiudere due rettangoli di gelatina di pesca. Imbarazzante.

Per rifarmi la bocca, punto sul vino. Scelgo una bottiglia di Coldstream Hills: un Pinot Noir molto buono. Questo rosso, al naso, mostra note di frutti rossi, come la ciliegia, il lampone o il mirtillo, mentre al palato risulta lungo e morbido, con i giusti tannini a fornirgli corpo e struttura.

Intanto mi viene servita la T’ang Court Combination: pesce, abalone in salsa di soia, maiale croccante con salsa di soia e merluzzo caramellato con la salsa di soia. A parte il gusto, rivedibile, mi sorprende la porzione: minuscola. Finito l’antipasto, mi sembra di avere più fame di prima…

Passiamo al piccione: servito completo di testa e con delle fragole a guarnire, viene cotto nella soia, cosa che gli permette di mantenere la pelle morbida. Molto più bello a vedersi che a mangiarsi. Bocciatissimo.

L’altro piatto principale del pasto prevede il crab: accompagnato da un nido fatto di zucchine, riempito con frutta di stagione e nocciole fresche, il granchio si trova all’interno di una zuppa, immersi nella quale spiccano degli spaghetti di soia finissimi. Niente di speciale: il brodo, oltre a non mostrare verve, appare anche un po’ insipido.

Chiudiamo con un’altra porzione di piccione: stufato con zenzero e litchis e cotto nel suo stesso brodo, con l’aggiunta di soia. Mostra un gusto ottimo e un sughetto fantastico, ma ancora una volta è la quantità a lasciarmi insoddisfatto.

Il nulla fatto cibo.

Il dolce, una crema di mandorle con chiara d’uovo solidificata, rimane in media con tutto il resto della cena: “Mah!” non riesco fare altri commenti.

Al termine della mia consueta ispezione ai bagni (belli e puliti) decido di lasciarmi andare alle considerazioni finali. La cucina cantonese del T’ang Court non mi pare sia per turisti. Credo che possa essere più adatta a commensali cinesi. Tra l’altro a commensali cinesi con poca passione per la cucina…

Forse un minimo di responsabilità ce l’ho anche io: scegliere piatti direttamente dal menù, scartando la degustazione, potrebbe avermi tratto in inganno. Ci penserò a Shangai, quando visiterò l’altro T’ang Court. A quel punto saprò dirvi se le sensazioni di questa sera potranno essere confermate.

Per ora il voto finale è di una barba e mezza.



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