I pairing di Eros Teboni sono sempre più avvincenti: tre grandi vini abbinati al mitico pesce d’acqua dolce proposto da Philipp Hillebrand, executive chef di Castel Flavon, a Bolzano
L’impianto narrativo che solitamente descrive la cucina dell’Alto Adige, ci parla prevalentemente di selvaggina, ortaggi ed erbe spontanee. Tuttavia c’è un pesce di lunga tradizione locale, tornato in auge in questi ultimi anni, che stimola la creatività degli chef ed entra in modo significativo nei menù dei più prestigiosi ristoranti gourmet: il salmerino alpino.
Si tratta di una vecchia conoscenza, già in voga all’epoca dell’Impero Austroungarico. Una specie ittica che prolifica nei torrenti sud tirolesi e si colloca tra le eccellenze culinarie di questo territorio, grazie al suo sapore delicato e privo di retrogusti, con cui chef e gastronomi di ogni ordine e grado, possono lasciarsi trasportare dalla creatività e preparare con esso grandi classici o ricette innovative, alla griglia, al forno, al cartoccio, ma anche in crosta, sotto sale e affumicato.
Salmerino, un po’ di storia
Il Salvelinus Alpinus, la cui caratteristica principale è di vivere esclusivamente in acque purissime a una temperatura mai superiore ai 10°, non è solo appannaggio di questi territori. Se ne conoscono un centinaio di specie ed è diffuso anche sui rilievi di Trentino, Lombardia, Norvegia, Groenlandia, Islanda, Giappone. Tuttavia quello dell’Alto Adige è ritenuto particolarmente pregiato. Risale almeno all’XI secolo la pesca del salmerino nelle acque di questa parte dell’Impero Austro Ungarico, mentre i primi allevamenti sono datati 1879.
Le sue caratteristiche peculiari possano variare da valle a valle, ma occorrono circa 28 mesi perché raggiunga la maturità, divenendo molto simile alla trota, di cui ricorda la consistenza tenera e delicata, mentre il dorso è verde chiazzato, le pinne possono variare dal grigio all’arancione.
Il Salmerino alpino – che oggi è una specie considerata a rischio di estinzione, ed è inserita nella Lista Rossa dei pesci d’acqua dolce indigeni in Italia – si diffuse in Europa circa 70.000 anni fa durante la glaciazione del Wurm, potrebbe quindi essere considerato indigeno dei laghetti d’alta quota della regione Alpina, ma vi sono testimonianze storiche che nel XV secolo, siano stati immessi salmonidi nei laghi d’alta quota del versante settentrionale alpino durante la dominazione Asburgica di Massimiliano I (1459-1519).
La prelibatezza delle carni di Salmerino era nota anche all’epoca del Concilio di Trento, quando Giano Pirro Pincio nel 1546 ne elogia la bontà nel suo ‘De gestis ducum tridentinorum’, come aveva fatto anche Ippolito Salviani nel 1554 nel ‘De historia aquatilium animalium’.
“Mi ha sempre incuriosito il salmerino e ho sempre cercato nuove vie per proporlo nella mia cucina, anche quando lavoravo all’estero – racconta Philipp Hillebrand, chef di Castel Flavon (Bolzano) –. La sua carne neutra e compatta, che sa pochissimo di pesce, si presta ad essere cucinata in molteplici preparazioni, ma occorre una materia prima di altissima qualità, senza la quale non ha senso alcun atto creativo. In questi anni ho selezionato il mio fornitore di riferimento è Huberth Egger in Val D’Ultimo sopra a Merano, un allevatore che dispone di alcuni laghetti di acqua purissima a San Pancrazio e ha fatto della naturalità e del rispetto verso l’ambiente il suo mantra. E’ una vera passione quella che anima la sua attività e gli consente una produzione mensile di soli cinquanta pesci, tra salmerini, salmoni e trote salmonate, che si riproducono negli invasi cristallini di acqua sorgiva, un ambiente naturale 100% eco sostenibile, dove l’acqua è potabile minerale certificata, sono banditi la chimica e gli antibiotici e l’alimentazione dei pesci avviene in modo naturale. I salmerini che giungono al termine del loro ciclo, hanno tra i 6 e gli 8 anni di vita e pesano tra i 700 gr. e i 2 kg., ma un salmonide longevo in nord Europa può arrivare anche ai 30 anni di vita. Quello che rende unico il Salmerino oltre alla bontà e alla versatilità della carne è che si utilizza tutto, dalle lische alla pelle, per questi motivi è un alleato prezioso per creare piatti che richiamano al territorio”.
Philipp Hillebrand, un percorso di prestigio
Philipp Hillebrand si è formato professionalmente alla Scuola Alberghiera Savoy a Merano, è stato al Waltershof di San Nicolò in Val D’Ultimo, per poi muovere i primi passi lavorativi in Tirolo, dove trascorre due anni e mezzo nelle cucine del ristorante Petit Tyrolia nell’esclusiva località sciistica di Kitzbühel.
Prosegue con un periodo al Sonnen Resort di Naturno come sous chef; e approda allo Stroblhof di San Leonardo, in Val Passiria, dove rimane fino al 2018. Due anni dopo accetta un nuovo incarico al prestigioso Villa Eden di Merano, dove guida una cucina di ricerca improntata alla naturalità, che frutta il prestigioso Premio Godio come miglior chef dell’Alto Adige 2020, fino al gennaio del 2022, quando prende il timone del ristorante Castel Flavon (Bolzano) per dare vita a un nuovo capitolo della sua vita.
Un maniero di grande suggestione con 1100 anni di vita, rilevato vent’anni fa, quando era in completa rovina e restaurato magnificamente. Fatto erigere nel 12° secolo dai Signori von Haselberg, alla fine del 15° passò ai Signori von Völs, i quali si dedicarono a un accurato restauro.
Seguirono cambi di proprietà, incendi, restauri non in linea con l’impianto originale e il naturale degrado del tempo che porteranno il castello a uno stato di decadimento e abbandono, fino all’imponente ristrutturazione conservativa della rocca e il recupero degli antichi sotterranei dimenticati, a partire dal 2001.
All’interno il ristorante panoramico in sasso, che guarda ai tetti di Bolzano, dove godere della cucina di Philipp Hillebrand, uno stile nordico internazionale, che impiega solo prodotti alto atesini e attinge alla tradizione culinaria trentina e sud tirolese, con slanci creativi e interessanti riletture contemporanee. Tra i piatti segnaliamo il Risotto Finferli, prezzemolo, capasanta; il Tataki di tonno Balfego, wakame, sesamo, wasabi; i Canederli di fegato di cervo all’olio di ginepro; oppure il menù degustazione 4 portate (anche vegano) e quello a 5 portate, con abbinamenti al calice anche analcolici.
Tra i signature dish il ‘sushi alto atesino’, con l’orzo della Val Venosta di un piccolo produttore di grani antichi, cucinato, fritto, soffiato, con salsa soia a base di succo di mela fermentato 3 anni.
Abbiamo chiesto a Philipp di pensare un piatto a base di salmerino alpino e lui ha deciso per una tartare, l’ideale per assaporarne il gusto in purezza, attraverso tre consistenze diverse (che diventano 4 usando anche le uova di salmerino, quando la stagione lo consente).
‘Salmerino Alto 3’ è il nome del piatto, nel quale si utilizza tutto del pesce. Una tartare di salmerino condita solamente con olio di ginepro e sale di montagna (che viene da una miniera al confine con l’Italia, sulle montagne austriache); una chips di pelle di Salmerino, disidratata, fritta e soffiata, insieme a una riduzione a base di carcasse, ossa, testa del pesce, burro di malga e poche gocce di olio alle erbe con prezzemolo ed erba cipollina. Ed ecco i tre vini che ho pensato di abbinare, attingendo all’enorme patrimonio vitivinicolo della penisola, un gioco molto divertente grazie al salmerino, che si è dimostrato una materia duttile e versatile.
Salmerino Alto 3 e vini in abbinamento
Federico II Azienda Agricola Milazzo – Millesimato Metodo Classico Brut annata 2015
Precursori assoluti del metodo classico siciliano da decenni i Milazzo, connotano una virtuosa attività che ha favorito una ritrovata consapevolezza verso i vitigni autoctoni dell’isola, insieme all’introduzione in Sicilia delle uve Chardonnay, così importanti nella spumantizzazione.
Fin dagli anni Sessanta, ben prima che il biologico fosse certificato, le coltivazioni sono improntate all’ecosostenibilità, nel rispetto della natura, senza l’impiego di prodotti chimici di sintesi. Una cuvée 100% Chardonnay, rappresentativa della storia dell’azienda e del pregevole lavoro compiuto sullo Chardonnay in queste ultime quattro decadi, un vino complesso con un notevole potenziale di maturazione.
Al naso fresco, con note di lievito, pasticceria e crema pasticcera, al palato struttura, intensità, piacevolezza, insieme a tanta freschezza ed eleganza, con leggeri ritorni di frutta candita e arancia disidratata. Una bollicina da scoprire per come viene esaltata la sapidità del vino.
Linticlarus Pinot Noir Riserva 2019
Il lavoro di Sabine e Christof, quinta generazione della dinastia Tiefenbrunner, insieme all’esperienza dell’enologo Stephan Rohregger, ben si integrano con la strada tracciata da Herbert Tiefenbrunner, papà di Cristof, riconosciuto precursore dei vini di alta quota, a cui si deve l’immenso Feldmarschall Von Fenner.
La selezione Linticlarus, si ispira al Castrum Linticlar, che vigilava sopra Castel Turmhof, sede storica della cantina e caratterizza vini di personalità che si originano su piccoli e secolari appezzamenti, impiegando nella vinificazione botti di rovere che conferiscono notevole longevità.
Un Pinot Nero che è un grande esempio ed esprime la classica stilistica altoatesina, una riserva importante che nell’annata 2019 rivela notevole freschezza e intensità di frutto, con lampone, fragolina di bosco, tannini mai troppo imponenti, ottima acidità, grande equilibrio, finale lungo e una leggera punta di riduzione al naso, che è un marchio stilistico dell’azienda. Il sorso si fonde letteralmente con la tartare di salmerino esaltandone la parte sapida e speziata.
Castelfeder Chardonnay Kreuzweg 2019
E’ una storia di famiglia quella di Castelfederer, realtà vitivinicola altoatesina di eccellenza con mezzo secolo di vita e 70 ettari di vigneti, conclamata nel 1989 da papà Günther Giovanett, con la creazione dell’esclusiva linea Burgum Novum.
Tre decadi celebrate alla fine di agosto con il lancio di Kreuzweg, un nuovo Chardonnay che segna il passaggio generazionale e la continuità aziendale ai figli Ines e Ivan. Una limited edition prodotta in sole 1400 bottiglie, che prende il nome dal cru Kreuzweg originario di Magrè e trae linfa dai terreni dolomitici, dal particolare microclima, dal calore emanato a fine giornata dalle pareti rocciose del vicino massiccio del Fennberg (il Monte Favogna).
Diciotto mesi in barrique, che conferiscono una leggera riduzione al naso, sentori di pietra focaia, polvere da sparo, piccola frutta gialla poco matura. Un vino minerale, fresco, molto croccante, dall’acidità importante, che entusiasma per spessore ed eleganza. Una prima annata stratosferica.