Oggi non viaggio.
O meglio: non viaggio con la mente, come di solito faccio. E voi lo sapete bene.
Nessuna malinconia guardando il panorama che circonda il mio tavolo.
Nessun volo pindarico alla ricerca di un qualche senso esistenziale in attesa dell’arrivo del maître o del sommelier.
Nessun ragionamento contorto che spesso vi costringo a subire, aspettando che vi parli di piatti e di vini.
Nulla di tutto questo.
Semplicemente perché The Fat Duck è già di per sé un viaggio.
Che tocca ogni lato della vita: dai sensi alla memoria. Nessuno escluso.
Semplicemente perché The Fat Duck è la più grande esperienza culinaria che mi sia mai capitato di vivere.
E di ristoranti tristellati, come sapete anche voi, ne ho visitati diversi nell’arco della mia vita e di queste ultime venti settimane.
Facciamo una piccola eccezione e partiamo dalla fine. Da quando, cioè, lasciando il ristorante di Bray, mi frugo in tasca alla ricerca della mia Moleskine. Avrei voluto che questo pranzo non finisse mai e tra i miei appunti provo a richiamare quanto di bello ho provato tra le mura del locale di Heston Blumenthal.
Non ho il benché minimo dubbio: scelgo una pagina nuova, immacolata nel suo bianco così puro e pieno di speranza. La piego bene con il palmo della mano, tolgo il tappo alla penna con i denti e scrivo in caratteri giganti: cinque barbe. Lo evidenzio con tre o quattro linee ben e poi alzo lo sguardo sorridente. E’ il massimo. Il voto più alto che mi sia mai capitato di dare a un ristorante tristellato. Non ho esitazioni: The Fat Duck le merita tutte. E ora vi spiego il perché.
La mia avventura nel locale di Blumenthal si apre con una mail. Mi risuona nella posta qualche giorno prima del mio arrivo a Bray, piccola cittadina alle porte di Londra. Il tempo sembra essersi fermato da quelle parti: il villaggio è immobile, bloccato ai primi del ‘700, quando gli inglesi maramaldeggiavano per il mondo scoprendo posti nuovi e facendo conquiste. Bray ha tre pregi: la presenza del Tamigi che gli regala un’atmosfera suggestiva, la vicinanza all’aeroporto di Heatrow che lo rende facilmente raggiungibile e ben due ristoranti tre stelle Michelin nel giro di forse un chilometro. Il Waterside Inn e proprio The Fat Duck. Che come stavamo dicendo mi accoglie con una mail.
“Buonasera Uomo delle Stelle, sono Melissa la sua guida personale nel viaggio sensoriale che sta per intraprendere al The Fat Duck”
Lì per lì, tra un check-in da fare, un messaggio a cui rispondere e una valigia da ritirare non gli do molta importanza. Salvo poi ricredermi non appena entrato nel regno di Heston Blumenthal. Il cuoco inglese, famosissimo in patria per la sua carriera televisiva, è il genio della cucina molecolare. Di quello che sembra e poi non è. Di pietanze che sorprendono prima gli occhi e poi il palato. O viceversa.
All’arrivo è proprio Melissa a fare gli onori di casa: mi saluta, mi accompagna al tavolo e mi spiega in che tipo di avventura mi sono andato a cacciare. Al The Fat Duck un pasto dura la bellezza di almeno cinque ore. Attraversa ogni momento della giornata: dalla colazione alla cena attraversando sette tappe. Sono elencate all’interno di una mappa, simile a quelle con cui si va alla ricerca di un tesoro, che mi viene fornita non appena arrivato.
Si gioca. Si gioca molto al The Fat Duck. Si gioca a mangiare per essere chiari. Alcune scritte sulla mappa, ad esempio, sono stampate in caratteri piccolissimi. Nessun problema: sul tavolo c’è una lente di ingrandimento, stile Sherlock Holmes, che serve a sedare ogni tipo di curiosità.
“Che prende per colazione?”
La voce di Melissa mi riporta alla realtà: sarà così per tutta la giornata. Al momento dell’ordinazione, infatti, mi viene sempre chiesto cosa ho voglia di mangiare per pranzo, per merenda o per cena. Lo trovo fantastico e divertente.
Il ristorante si sviluppa su due piani: in quello superiore troviamo i bagni (puliti ed essenziali. Piccola nota: i water sono super automatizzati, come quelli delle toilette giapponesi. Strano per un locale inglese…) e la cantina. La riserva di bottiglie è alle spalle di due muri, che formano un angolo, sopra i quali giganteschi schermi proiettano immagini della cantina stessa. Pazzeschi.
Il piano terra, invece, è quello riservato alla sala e alle cucine. I soffitti sono bassi, in piena tradizione british, arriveranno con difficoltà ai due metri e venti di altezza. Questo perché in Inghilterra è vietato ristrutturare gli edifici antichi. Sebbene The Fat Duck sia passato proprio per una profonda ristrutturazione che ha costretto Blumenthal a traferirsi per qualche mese a Melbourne, facendogli perdere le tre stelle Michelin, subito riconquistate alla nuova inaugurazione.
Cominciamo con l’antipasto: mi viene chiesto che genere di drink preferisco. Senza esitazione scelgo tequila e frutto della passione. Mi viene servita una mousse, composta di questi ingredienti, emulsionata in una ciotola con azoto liquido. Ne viene fuori un piatto vaporoso, da poter mangiare con le mani: una vera esplosione di sapori.
Si continua con dei macaron adagiati su di un piatto meraviglioso, fatti di barbabietola e wasabi: piccanti al punto giusto. Chiudiamo con del succo di gin, cumino affumicato e un sorbetto di sedano con salsa di basilico.
La colazione: pane dolce, composta di caffè, pomodoro e burro. Mi viene consigliato di affiancarci un Miolo Franciacorta tenuta Villa Crespa: la bollicina sgrassa e toglie anche il sapore del gin che, in questo gioco di orari, abbiamo bevuto la sera precedente. Mi vengono portate sei piccole scatole simili a quelle di Cornflakes. Hanno anche un regalo: un puzzle da comporre fino a formare una scatolina. Ha uno spazio in cui inserire una monetina: ci servirà in seguito. I cereali nel frattempo (che cereali non sono affatto e vantano differenti gusti: dai funghi, alle uova, al tartufo…) vanno mischiati con una zuppa al pomodoro e crema di bacon. La parte più sconvolgente della colazione, però, rappresentata dal the: è in due variazioni, caldo e freddo che incredibilmente non si mischiano! Quando versi in bocca il contenuto del bicchiere, il tuo palato sente la parte calda e quella fredda contemporaneamente. Come ci sono riusciti? Perché chiederselo: toglierebbe romanticismo alla cosa.
Al tavolo arriva una conchiglia: nell’incavo porta un iPod. Riproduce il rumore del mare. Mi aggancio le cuffie alle orecchie, faccio partire il suono della risacca e mi dedico al piatto principale. Alla base, coperta da un vetro, c’è della sabbia, sopra la quale c’è una spuma di cocco e un sashimi di ricciola e avocado. Tutto viene mangiato sorseggiando del saké. Insieme mi vengono offerti due gelati: uno freddo e l’altro a temperatura ambiente. Uno al gusto di avocado e salmone, l’altro con granchio e frutto della passione.
In un contenitore che sembra fatto di pietra lavica, poi, arriva una stella marina: è ricoperta di cioccolata bianca (ma di colore rosa, per ricordare quello della stella) che viene squagliata con del succo di cocco caldo. Al suo interno un tesoro composto da caviale di salmone affumicato.
A questi piatti affianco due differenti tipi di vini: un Grosset Polish Hill del 2015 (un Riesling australiano) e un Gvino Saperavi: un rosso georgiano del 2011 fantastico. Per quanto sia una semplice degustazione chiedo di poter essere servito, due volte. Non lo avevo mai fatto.
Al tavolo arriva un bosco, custodito dentro una teca, all’interno della quale viene versata dell’acqua che, grazie alla forza dell’azoto, porta tutto ad affumicarsi. Gli effluvi prodotti ricordano il tartufo che infatti è uno degli ingredienti della pietanza del pomeriggio. Su un piatto con alla base della terra, ci sono funghi e un piccolo cannolo con funghi, tartufo a scaglie e mirtilli.
Si procede con una zuppa di tartaruga, un uovo (che uovo non è) e un toast sandwich. A parte c’è un orologio in foglia d’oro, sciolto in una teiera e versato sull’uovo con aloe vera e vegetali vari. Ottimo è dir poco.
Che ci crediate o no, il vero menù inizia proprio ora. Per antipasto un porridge fatto con finocchi alla julienne, basilico e cereali. Lo mangio sorseggiando un vino spagnolo Vina Tondonia: è un rosso seducente e elegante. Per niente deciso, accarezza il palato, con note gentilissime di frutta matura. E’ un vino raffinato, ottimo per il piatto che sto mangiando e per il posto in cui mi trovo.
Il main course, invece, è il rombo servito con un crostino di pane, caviale, erba cipollina e una crema di basilico e sedano.
Per chiudere, il dessert, assaporato con un Sauternes molto dolce ad accompagnarlo. E’ un finto grappolo d’uva. Ogni acino ha diverse consistenze e differenti gusti: cioccolata fuori e dentro mango, papaia, gelato alle albicocche. Le foglie del grappolo, invece, sono fatte di zucchero cristallizzato.
La nostra esperienza culinaria, però, non è ancora finita: prosegue con un quadro sul quale sono poggiate cinque gomme diverse. Sono fatte di whisky e si possono masticare. E’ poi la volta delle meringhe esposte sul tavolo su un meraviglioso cuscino sospeso a mezz’aria. E poi la piccola pasticceria: una casetta che si attiva con il soldino che ci era stato dato con il puzzle. Ogni cassetto presenta dei dolci, squisiti, da mangiare al momento. Senza pensarci su.
Siamo ormai giunti alla sera: ordino una camomilla, bevanda che mi accompagna sempre in ogni nottata, prima di mettermi a dormire.
Esco dal locale più che soddisfatto. Un’esperienza unica e indimenticabile.
Lo so. E’ un’espressione fastidiosa e inflazionata, ma oggi voglio utilizzarla ugualmente.
The Fat Duck è top!
Sbaglio, o nel piatto col tartufo nero ci sono anche dei vermetti secchi??