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“L’essenziale è invisibile agli occhi”

(Il Piccolo Principe – Antoine de Saint-Exupéry)

Lo ammetto: sono un inguaribile romantico. Un sincero. Un trasparente. Un cristallino.

Un sensibile.

Assomiglio ai muri piramidali che trattengono i rumori. Niente può entrare, nulla può uscire. Non le emozioni, positive o negative che siano. Tanto meno i suoni, le urla. Siano di gioia o di disperazione.

Sono una cartina al torna sole: immergetemi in un liquido e non vi negherò mai una reazione. Quasi sembra un gioco divertente…

E poi sono un abitudinario: ho bisogno delle mie cose, dei miei libri, della mia musica.

Dei miei riti.

Non essendo mai in casa ho dovuto sviluppare delle idee alternative. Dei palliativi. Il caffè la mattina, sperando sia quanto più simile a quello che bevo in Italia. Una playlist musicale giusta, che sappia ricordarmi cosa provo realmente, da dove vengo. Chi sono.

I libri. Non mi nego mai un’oretta di lettura prima di andare a dormire. Come non smetterò mai di cerchiare le parole che maggiormente mi colpiscono o sottolineare periodi che sento particolarmente aderenti al mio essere.

La scrittura rientra in uno di questi riti: pensate il mio taccuino si riempia solo di appunti, riguardanti i locali che ho la fortuna di visitare? Assolutamente no, lo sapete anche voi. Le pagine sono piene zeppe di idee, frasi, citazioni, rime. A volte poesie. Mini racconti.

Sono nella sala da pranzo del mio hotel. E faccio colazione. Il telefono si illumina a intermittenza, nemmeno fosse un albero di Natale. Chiamate, messaggi, email. Li archivio con il semplice movimento del pollice perché “non rispondo è ancora presto” (cit.). Decido, invece, di concentrarmi sul mio caffè ristretto in tazza grande. Non proprio quello che berrei a Roma, in un bar di un quartiere a caso, ma nemmeno così pessimo.

Apro il taccuino in un punto impreciso: è l’unico compagno seduto al mio tavolo. In attesa di una chiacchierata più o meno edificante con qualche altro ospite dell’hotel o della lettura dei siti internazionali per capire che direzione sta prendendo il mondo.

La pagina che mi si mostra in tutto il suo candore, mi riporta anche due frasi: differenti solo per contenuto, colore dell’inchiostro e posizione.

Due frasi.

Asciutte ma significative.

Mi manca l’odore dei gelsomini di casa mia.

Perché dire con dieci parole, quello che puoi dire con due?

Le sinapsi improvvisamente fanno contatto. E la mente si accende nemmeno avessi pescato il Jackpot abbassando con forza la leva metallica di una slot machine.

E’ un messaggio non c’è dubbio.

La nostalgia per le vie della mia città e l’essenziale.

Perfetto: anche oggi so di cosa parlarvi…

Sono ancora in Australia. E aspettando un rientro che non tarderà ad arrivare, ho voglia di raccontarvi questa esperienza “italiana” che mi ha visto protagonista non più di qualche settimana fa.

Lo sapete quanto mi piacciono i “flashback”…

Sono tornato in Italia, quasi di nascosto. E l’ho fatto per andare in Abruzzo, a Castel di Sangro e fare visita a “Reale”, il ristorante di Niko Romito.

Legatissimo alle sue origini, lo chef gestisce questo locale da quasi vent’anni, in compagnia di una figura indispensabile per la sua vita personale e professionale: la sorella Cristiana.

Romito non ha bisogno di presentazioni: tre stelle Michelin dal 2013, non ha avuto una vera e propria preparazione “accademica”. E’ un autodidatta che ha cominciato a Rivisindoli, nell’ex pasticceria di famiglia divenuta poi trattoria. Solo nel 2011, Reale ha “raggiunto” Casadonna: un ex monastero del 1500 che oggi ospita i suoi commensali.

Entrando e osservando ingresso e sala, la prima cosa che balza agli occhi è il minimalismo di Reale. Il pavimento è spartano, le mura bianche, i tavoli (non più di 8) semplicissimi, la mise en place ridotta all’osso. Perfino i quadri appesi alle pareti sembrano semplici foto, messe anche un po’ a caso, e non opere d’arte. Questa è un’idea precisa di Romito, riportata anche alla cucina. Da non interpretare come pigrizia o superficialità, ma come ricercatezza, voglia di sperimentare. Nelle materie prime, negli ingredienti e dunque anche nei piatti.

Dopo un’accoglienza in linea con il minimalismo del locale, quindi molto tranquilla e pacata, mi accomodo e scelgo il menù Essenza: sei portate più il pairing di vini.

Mi vengono consigliati: un Minaia Gavi del 2016 Nicola Bergaglio, di un colore giallo paglierino, al naso mostra sentori floreali, di agrumi, mandorle e anice. Il gusto, invece, è elegante, fresco ma persistente; un Morenita Cream, un ottimo Sherry che mi ha fatto impazzire specialmente nell’abbinamento al piatto; un Pecorino Terre Aquilane IGP Casadonna: un vino da collezione, nato tra l’Alto Sangro e l’Altopiano delle Cinque Miglia e voluto fortemente da Romito. Appare lungo e di spiccata acidità; un Mersault “Close de la Barre” del 2013 – Domaine Des Comtes Lafon: di un colore giallo molto acceso, è un vino maturo, dalla grande mineralità; un Collemassari Poggio di Sotto Rosso di Montalcino 2014: parliamo di un rosso, di un Sangiovese, lucido, spigliato, di profumo smagliante e del tutto libero da pesantezze odorose o gustative; e infine un Es più sole di Gianfranco Fino: un Primitivo di Manduria, dolce, ottimo per i dessert.

Cominciamo con l’amuse bouche: un soffice di pistacchio salato, pomodoro pelato arrosto laccato al miele; poi raviolo al ragù e patate sotto la cenere avvolti da polvere vegetale.

Poi assaggio “Assoluto vegetale”. Un estratto di sedano carote e cipolle purissimo; un piatto essenziale dal retrogusto piacevole, capace di rimanerti in fondo al palato a lungo.

Passiamo, poi, alla prima vera pietanza del menu: il cavolfiore. Fermentato per un tempo che varia a seconda del vegetale che può essere anche di diversi giorni. Se devo essere onesto il piatto non mi ha fatto impazzire, anche se ho capito perfettamente il concetto.

Ottimo anche il pane, preparato e cotto come si usa nella vecchia tradizione abruzzese e lenticchie, nocciole e aglio: le lenticchie con gocce di olio aromatizzato all’aglio coprono uno strato di emulsione di nocciole e, alla base, c’è un gel dello stesso legume dato dalla sua acqua di cottura, solidificato da polvere di farina di lenticchie.

Chiudiamo con animelle, panna, limone e sale, poi ravioli con ricotta, spinaci e manteca e infine il manzo, servito con delle patate cucinate e laccate con un estratto di patate stesse portato in riduzione che conferisce una nota molto cremosa.

Per dolce, oltre ad una mini selezione, mi viene servita una meringa all’italiana, con dentro lampone e mou. Fantastica. Uno dei piatti più riusciti.

Al termine del pasto, dopo la solita visita ai bagni che rispecchiano interamente la filosofia del locale, mi fermo a parlare con lo chef: Niko Romito. Mi pare la personificazione di Reale: pacato, equilibrato, molto attento e curioso.

L’esperienza enogastronomica nel monastero di Casadonna è da provare: non mi nascondo. Ma se potessi dare un consiglio a Romito gli direi di “donarsi” un po’ di più ai suoi commensali. Partendo dalle idee per arrivare alle stesse porzioni: per gli addetti ai lavori forse è un po’ più semplice capire perché un piatto è riempito con una determinata quantità di ingredienti e perché no. Per chi si approccia alla cucina, invece, da mero avventore forse meno. Tutto potrebbe essere interpretato come mancanza di attenzione o addirittura di generosità.

Voto finale: tre barbe e mezza.

 

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