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Lo chef del Joia, unico ristorante stellato vegetariano in Italia, ci racconta il suo rapporto con il Maestro e il mondo con il quale, i suoi suggerimenti hanno influenzato il suo lavoro

Pietro Leemann è uno chef originario del Ticino che ha appreso le basi “del mestiere” dal maestro Gualtiero Marchesi. Dopo un periodo in Oriente, fra Cina e Giappone, Leemann ha aperto il suo ristorante, il Joia a Milano, che dal 1996 è l’unico stellato vegetariano in Italia. Negli anni ha collaborato tanto con Gualtiero e insieme hanno condiviso molte idee, opinioni e ovviamente  esperienze.  Cosa li accomuna? Una visione decisamente più “rotonda” della cucina che deve essere universale. Si deve lasciar ispirare e influenzare dalle diverse culture senza categorizzarla in un determinato luogo. E’ universale.

Chef, come descrive la sua esperienza con il Maestro della cucina italiana?

“Quando ho conosciuto Marchesi, arrivavo già con un bagaglio di esperienze fatte in altri ristoranti di alto livello. Venivo da una scuola di stampo francese molto rigorosa, dove quello del cuoco era  considerato soprattutto un mestiere. Invece con Marchesi ho scoperto la cultura della cucina. Lui era un cuoco ma anche una persona culturalmente preparata. E portava quel tipico approccio in cucina: ho imparato da lui a riflettere e quanto fosse importante  avere una cultura  generale  che poi negli anni ho sviluppato”.

Cosa le ha detto quando ha preso la sua prima Stella Michelin?

“Era molto felice che avessi ottenuto successo, così come lo era se capitava a chiunque tra i suoi discepoli. Significava che la scuola era valida”.

Lei è uno chef che propone una cucina vegetariana innovativa: Marchesi che ne pensava?

“L’ha  sempre rispettata. Per lui un cuoco deve saper cucinare tutto: questo era il suo punto di vista. Da quando sua figlia Paola era diventata vegetariana, aveva parecchio rivisto la sua posizione rispetto a questo approccio culinario. Si è reso conto di come questa filosofia fosse legata a emozioni profonde che sono quello che spingono me e i vegetariani a  diventare tali”.

Oltre ad essere stato un allievo di Marchesi, lei ha anche insegnato all’ALMA , la scuola di cucina fondata dallo stesso Maestro. Com’è stato essere un collega e non più un alunno?

“Sono rimasto suo allievo. L’Alma è stata creata su una sua idea di cucina: io ho portato il mio contributo. Mi sentivo onorato nel poter contribuire a questo progetto che però, ricordiamo, era interamente suo.  Questa scuola è diversa dalle altre perché fornisce agli studenti nozioni importanti sul mondo della cucina. Alma è stato il coronamento  della sua carriera:  prima cuoco poi  autore di libri e infine Maestro di cucina e  cultura generale”.

Quando Marchesi è venuto al Joia per la prima volta, ricorda cosa le disse?

“E’ venuto molte volte. In una trasmissione in Svizzera, dove lo avevo invitato, mi disse: “Non è importante cosa si cucina ma come lo si cucina”. Per lui una grande cucina poteva essere fatta non solo con la carne ma anche con ingredienti vegetali. E una buona cucina, poi, può essere cinese, giapponese o indiana: non è legata solo a un luogo. La cucina si distingue semplicemente in quella buona e quella meno buona”.

Qual è il piatto che rappresenta al meglio l’essenza e la personalità di Gualtiero?

“Ho fatto un piatto che si chiama “Omaggio a Gualtiero Marchesi”. E’ una zuppa con una base di  crema di patate molto aromatica e ricca, poi verdure all’interno e sopra una spuma di tartufo pregiato di Norcia. Questo piatto l’ho realizzato così perché vedo Marchesi come una persona nobile. Nobile proprio come il tartufo. Ma nonostante la sua personalità così austera, aveva anche un carattere molto accogliente verso colleghi e allievi. Aveva una sorta di calore dentro. In lui si muoveva il cuore e l’intelletto. Questa zuppa rappresenta proprio questo aspetto rotondo che a volte non emerge quando si legge di lui. Esce sempre il lato autorevole, intellettuale.  Questo è una parte intima che mi faceva piacere far emergere”.

Cosa condivide con il Maestro?

“Sicuramente l’osservazione lucida sulla situazione della cucina in generale e di quale fosse la qualità del piatto. Lui non lesinava critiche: se c’era qualche cosa che non gli andava bene lo diceva! Ma d’altro canto era anche molto generoso nei complimenti”.  

Ha un ricordo del cuore? Un momento insieme a Gualtiero che porterà sempre con se?

“Il mio grande desiderio di andare in Oriente. Ricordo che  quando  decisi di aprire un ristorante, rinunciando al viaggio, Marchesi ne fu dispiaciuto. Ovviamente non per il locale in sé ma perché avevo rinunciato a realizzare le mie idee. Per lui la ricerca e la scoperta di nuove culture era fondamentale nella carriera di uno chef. Poi quando sono partito, il Maestro è stato entusiasta. Tornato dalla Cina ci siamo incontrati e lui stesso ha inserito nozioni della cucina orientale nella sua. Con Marchesi c’era spesso questo scambio di idee.  Quando presi la Stella Michelin lui, che diceva sempre quello che pensava, criticava la mia cucina. Affermava che la mia era troppo intellettuale. La criticava perché per lui doveva essere fruibile a tutte le persone. In realtà è un paradosso: perché anche la sua cucina è sempre stata un po’ intellettuale; ma lui ne era consapevole e lo diceva.  Proprio grazie alle sue attente osservazioni nel tempo il mio modo di cucinare si è “arrotondato” e oggi i miei piatti sono più vicini all’ospite che li mangia. Quando lui mi diceva una cosa io non la banalizzavo, ci riflettevo seriamente. E poi in caso facevo dei piccoli cambiamenti”.

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