Dove inizia la fine del mare? O addirittura: cosa diciamo quando diciamo: mare? Diciamo l’immenso mostro capace di divorare qualsiasi cosa, o quell’onda che ci schiuma intorno ai piedi? L’acqua che puoi tenere nel cavo della mano o l’abisso che nessuno può vedere? Diciamo tutto in una sola parola o in una sola parola tutto nascondiamo? Sto qui, a una passo dal mare, e neanche riesco a capire, lui, dov’è. Il mare. Il mare.
(Alessandro Baricco – Oceano mare)
E’ in momenti come questo che devo fare attenzione. Utilizzare enorme cautela.
Io mi perdo.
Non importa dove mi trovo. Non importa se sto passeggiando sul bagnasciuga, se sono in volo su un aereo o se ho deciso di passare la giornata accompagnando il rilassante oscillare delle barche in un porto. Non importa nemmeno se sono in vacanza oppure devo lavorare.
Dovunque io sia, semplicemente mi perdo.
O almeno corro il rischio di smarrirmi.
Di farmi risucchiare dall’immensità di questa vasta distesa azzurra che i meno attenti chiamano “mare”.
Io non ci credo.
Cioè non credo alla didascalica descrizione di quella che è, a tutti gli effetti, un’entità a se stante. Dotata di vita. Di valori. Probabilmente anche di una visione tutta sua della giustizia.
Non può essere semplicemente “mare”.
E’ molto molto di più.
E mi chiama.
Fin da quando sono bambino. Fin da quando ho imparato a camminare e a ragione con la mia testa.
Mi chiama.
E io resisto. Quanto meno ci provo. Mi pare la storia del Colombre di Dino Buzzati. Ma al contrario. In quel caso il pescatore scappava dal suo destino che altro non era che la felicità. Io semplicemente resisto. Consapevole che prima o poi mi dovrò arrendere, permettendogli di raggiungermi. Aspetto quel momento con curiosità: chissà cosa mi dirà il mare. Che regalo o dispetto mi proporrà.
Penso a tutto questo dal tavolo che mi hanno riservato. Chiaramente guardando l’oceano di fronte a me. Se di solito risulta complicato identificarne i contorni, oggi è appare proprio impossibile. La foschia domina il cielo di Hong Kong. Mi sembra quasi di poterla toccare. In fondo ne faccio parte, almeno per l’altezza: sono al quarto piano dell’hotel Four Season, dove ha sede il Lung King Heen, gestito dallo chef Chan Yan Tak. E’ un ristorante importante questo: il primo al mondo di cucina cantonese a ricevere le tre stelle Michelin.
Mi lascio conquistare dalla sala: a parte la vista, meravigliosa e favorita da enormi pareti di vetro, vanta la bellezza di 128 coperti, sempre prenotati.
Il Lung King Heen propone tre menù: il classico alla carta e due degustativi, l’executive lunch e il Yum Cha Gourmet Menù. Opto per quest’ultimo, conquistato anche dal pairing di tè, ovvero la possibilità di assaggiare diverse varietà della bevanda, da accompagnare, per gusto e consistenza, ai piatti.
Si comincia con lo Steamed Dim Sum Selection, una sorta di amuse bouche costituita da tre salse: una piccante a base di chili, un’altra di funghi e l’ultima in agrodolce. Vanno mangiate insieme a ravioli cotti al vapore, tipici cinesi, ripieni di gamberi (il primo) e di aragosta (il secondo) serviti al tavolo all’interno di un contenitore in bambù. Per gustarli meglio mi viene versato l’Iced Fujian Supreme Oolong Tea: un the freddo, molto piacevole.
Il secondo piatto che mi viene proposto è il Baked Barbecued Pork Bun with Pine Nuts, Baked Whole Abalone Puff with Diced Chicken. Si tratta di due tartellette: una chiusa con il maiale e gli arachidi; l’altra aperta, sulla quale viene adagiato l’Abalone, un mollusco, accompagnato dal pollo. A questa pietanza viene affiancato lo Yunnan Supreme Black Tea. Molto simile al tè nero inglese, è realizzato con foglie aromatizzate, messe in infusione per un tempo molto ridotto, circa una ventina di secondi.
Arriviamo poi allo Steamed Star Garoupa Fillet with Ginger and Spring Onions in Bamboo Basket. Il pesce, ingrediente principale del piatto, è cucinato con zenzero e cipolla cruda. Lo mangio sorseggiando lo Shifeng Long Jing: un tè molto più leggero rispetto al precedente, ottimo col sapore di mare.
Passiamo, poi, allo Wok-Friend Superior Australian Wagyu Beef Cubes with Morel Mushrooms: carne di manzo australiana, massaggiata con la birra, cotta nel classico wok cinese e condito con le spugnole. Il tè che mi viene proposto è forse il migliore che abbia mai assaggiato: lo Yunnan Home Preserved Puer, è del 1999, un’annata speciale, durante la quale la giusta dose di vento, sole e pioggia ha dato vita a una bevanda pazzesca, dal sapore molto particolare, quasi affumicato, ottimo per la carne.
Chiudiamo con il main course: il Simmered Noodles with Shredded Chiken in Soup. Classici spaghetti di riso, in una crema di pollo, accompagnati da cubetti di pollo. Lo trovo enorme nella qualità e troppo insipido. Da bocciare.
Finisco con il dessert: Chilled Mango and Sago Cream with Pomelo. Questo, invece, riuscitissimo. Da rivedere, infine, la piccola pasticceria: quattro cioccolatini senza infamia e senza lode.
Concludo la mia esperienza al Lung King Heen visitando i bagni: puliti, enormi, meravigliosi. Tipici del Four Season.
Per quanto i piatti, nel totale, non mi siano dispiaciuti, non mi sento di dare allo chef Chan Yan Tak (che tra l’altro non era in sede) un voto altissimo. Primo perché il servizio ha lasciato un po’ a desiderare, specialmente a cavallo del cambio turno, con il primo cameriere molto preparato e il secondo rivedibile. Secondo perché con la cucina cantonese si possono ottenere risultati molto più apprezzabili.
Voto finale tre barbe e mezza.
Mi spiace stavolta leggere qualche commento in meno sui piatti, oltre alla descrizione. Paradossalmente mi aiuta più a giudicare i tè, fantastico, che i piatti