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Me lo ricordo chiaramente: avrò avuto non più di vent’anni.

Lo posso dire con assoluta certezza: un particolare mi impedisce di sbagliare.

Capelli e barba non avevano ancora fatto a cambio di posto…

Un vecchio divano.

Ricoperto da un telo ancora più liso a fornirmi un rifugio sicuro in cui sedermi.

Le mani impazienti. A tambureggiare sullo schienale.

Le gambe accavallate, con il piede sospeso a muoversi al ritmo sconosciuto e imprevedibile fornito dalle dita.

Un libro aperto a metà sulle cosce.

La bocca secca, la lingua impastata.

Soprattutto gli occhi innamorati.

Avete presente quando le pupille perdono la loro forma originale, per poi ricomporsi in un cuoricino pulsante? Ecco. Esattamente quella roba lì.

Di fronte a me una ragazza.

Seduta ad un tavolo rotondo, ricoperto da una tovaglia ricamata a mano.

Gli occhiali sul naso, una matita con un’estremità fatta di gomma tra le labbra e un ciuffo corvino spostato dal centro del viso fin dietro l’orecchio. Le unghie a seguire le righe di un qualche tomo universitario di cui non ricordo nome. né autore.

Di fronte a me, una ragazza. Nulla di più.

Il mio primo amore.

– Sei bellissima – le dico – la cosa più bella che ho visto in vita mia. Mi cadranno gli occhi a forza di guardarti –

Lei alza il mento e mi inquadra arrossendo. Di colpo la stanza si accende di una luce diversa. Sembra come se tutti gli oggetti sui quali poggia le iridi nere si illuminassero improvvisamente.

Definire i suoi occhi come semplici occhi sarebbe riduttivo. Sono fari. Stelle filanti giganti. Mi si incastrano in un punto esatto del petto che il mio cervello registra come “felicità”.

Mi sorride. Credo sia imbarazzata.

Poi mi liquida. Lapidaria.

– Scemo. Ma se sono struccata e in pigiama… –

Ora sono io a ridere. Con i denti, la bocca, la pelle. L’anima.

– Non capisci? – le chiedo quasi supplicandola – saranno più le volte in cui ti vedrò con i capelli sfatti e le borse sotto gli occhi che quelle in cui sarai in tiro. E sai cosa ne penso? Che io ti preferisco così. A me piaci più così –

Non chiedetemi il perché ma nonostante tutto non finì bene con quella ragazza. Roba da adolescenti, probabilmente. Ma questo è tutto un altro discorso…

Ora, immagino starete pensando: ma che bello spaccato di vita! Uomo delle Stelle come sei romantico! Bene, bravo, bis! Ma a noi, per dire, che ce ne frega?

Nulla evidentemente. Era solo per dirvi che io amo la semplicità. E da sempre.

E’ vero: mi piace mangiare bene e in posti di lusso, gli abiti firmati e le cose belle. Ne ho fatto il mio lavoro.

Ma non disdegno la semplicità. Apprezzo i locali genuini, fossero anche spartani.

Però ad ognuno il suo.

Questi aggettivi, ad esempio, sono intollerabili in un ristorante che si fregia delle Tre Stelle Michelin.

Oggi sono in Francia. A Marsiglia. Ospite di Gérald Passédat e del suo Le Petit Nice.

Nato nel 1917 da un’intuizione di Germain Passédat, nonno dell’attuale chef, questo ristorante (con un hotel cinque stelle annesso) possiede una storia secolare. Anche se ci sono voluti circa sessant’anni prima che la guida Michelin si accorgesse della sua esistenza. La prima stella, infatti, è arrivata solo nel 1977. La seconda nel 1981. Per la terza si è dovuto aspettare fino al 2008. Anno della consacrazione definitiva.

Impossibile dire che la location di Le Petit Nice sia brutta. Anzi. A picco sul mare, con delle bellissime vetrate che ti permettono di ammirare lo scrosciare delle onde. Mi chiedo come sarebbe in estate: certamente migliore. Più suggestivo. Ma come in tutte le cose della vita sono i particolari a fare la differenza.

Le Petit Nice mi sembra un ristorante trascurato.

I tavoli, ad esempio, sotto le loro meravigliose tovaglie bianche, sono rovinatissimi. Da catering di quart’ordine. I muri sono rotti, sporchi. Pieni di pedate e schizzi di sostanze indefinite alla base. Per non parlare delle stoviglie: belle al primo impatto, meno al secondo.

Decido di concentrarmi sulla cucina e procedo con lo studio del menù. Non un granché oltre che molto costoso. Scelgo di optare per la carta, ordinando un piatto dalla lista Premier Palier e uno dalla Deuxième Palier.

Prima dell’amuse bouche chiedo anche un bicchiere di vino. Mi consigliano un bianco della borgogna: Saint-Roman, Cuvée de la Mésange del 2011, Domain Ponsot. Dotato di una buonissima mineralità, mostra anche sentori di albicocca e dolci sapori di frutta nettarina. Oltre ad altri elementi che gli garantiscono acidità e un vago finale aromatizzato. Ottimo, ma costoso: trenta euro per un solo bicchiere mi sembrano eccessivi.

E’ il momento dell’antipasto: un letto di alghe di mare e la pelle di due pesci diversi, un’orata e un’anguilla. Poi vari pezzettini di pesce, alcuni fritti, conchiglie e una cotica di maiale cotta al forno e soffiata con un ripieno di polpo. Molto buono.

Cominciamo con il primo piatto vero e proprio: anemone in tre versioni.

La prima cosa che mi viene servita è una ciotolina con l’acqua di mare da accompagnare all’anemone. Vi ricordate i particolari di cui parlavo prima? La ciotolina è sbeccata, rotta, non il posto migliore in cui mettere le labbra. Chiedo che venga cambiata e vengo soddisfatto.

La prima versione di questa pietanza prevede l’anemone, una gelatina di Licis con verdure tagliate finissime e una purea di cavolo bianco. La accompagno con un pane alle alghe molto buono da condire con due diversi tipi di olio: francese e italiano.

La seconda versione dell’anemone, invece, lo vede fritto dorato. Una salsa verde al basico e aglio, perimetrata da una pasta di acciughe. Poi una chips di anemone cristallizzato con una polvere di alghe.

Poi acqua di ostriche con caviale e una foglie di cavolo con dentro l’anemone. In un’altra piccola ciotolina, invece, viene servito un succo di spinaci con anemone e caviale e un bignè fritto ripieno di anemone.

Prima di passare al secondo piatto, per sciacquare il palato, mi viene servito un sorbetto al rosmarino e finalmente una delle pietanze più importanti di chef Passédat: Le Loup Lucie Passédat. Il cuoco lo racconta come la pietra angolare della sua cucina, la sua prima creazione e un omaggio a sua nonna Lucie.

Si tratta di un battuto di pomodori e basilico, con olio alla base, un pezzettino di cernia (o comunque del pesce più fresco che si ha a disposizione) con sopra striscioline di zucchine, cetriolo e una fogliolina di tartufo.

Infine, prima del dolce, un piccolo intermezzo: due foglie di alloro, con gelée di alloro e menta, una tartare di melanzane e una sfoglia croccante a ricoprire il tutto.

Il dessert, invece, probabilmente uno dei migliori che ho mangiato nel mio roadtrip, è costituito da riccioli di cioccolata, con al centro due croccanti cilindrici ripieni di cioccolata fondente e al latte, una piccola meringa al pan di spagna e una “spintissima” salsa al frutto della passione a legare il tutto. Semplicemente fantastico.

Chiudo con qualche dolcetto e un succo di cetriolo e menta.

Al netto della mancata attenzione per alcuni particolari, le creazioni di Gérald Passédat sono degne di nota. Anche il servizio non mi è dispiaciuto se penso che all’arrivo del dolce uno dei due cilindri di cui vi parlavo è scivolato, adagiandosi sul piatto. Il cameriere non si è fatto scrupoli: ha portato via il piatto e me lo ha riconsegnato come nuovo. Apprezzabile.

Ecco: tra le note negative devo inserire il costo dei piatti. Direi fuori mercato.

Voto finale tre barbe. 

 

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