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“Esiste il contrario di déja vu. Lo chiamano jamais vu. È quando incontri le stesse persone o visiti gli stessi posti in continuazione, ma ogni volta è come fosse la prima. Tutti sono sconosciuti, sempre. Niente risulta mai familiare”.

(Chuck Palahniuk – Soffocare)

Avete presente quello strano scherzo del cervello, per il quale, la scena che avete davanti agli occhi, vi sembra di averla già vissuta? Déja vu, lo chiamano. Gli scienziati hanno provato a spiegarlo, descrivendolo come una forma di “antivirus” della nostra materia grigia: una sorta di strano sistema di verifica della memoria. Gli amanti della New Age lo venerano, raccontandolo come il ricordo di una vita precedente. Gli appassionati di Matrix, invece (tanto per tornare al blog precedente su Alvin Leung) sostengono sia un bug del sistema, un errore della “rete” che sta cambiando in corsa lo scorrere delle cose.

Io non so cosa sia il déja vu. So solo che ha il potere di annoiarmi a morte.

E, credetemi, non sono per niente abituato agli sbadigli. Almeno per il mestiere che mi sono scelto. Non esistono tempi vuoti nella mia vita: c’è sempre una qualcosa da fare, persone da conoscere, posti da scoprire. Non c’è mai spazio per la noia. Anche perché una delle poche massime in cui credo, sostiene che un giorno trascorso senza provare qualcosa di nuovo, rappresenti un giorno perso.

Déja vu, dicevamo. Il già visto, già sentito, già sperimentato.

Un po’ quello che ho provato nel ristorante L’Atelier Le Jardin di Joel Robuchon.

Vado a raccontarvi.

Sono ancora da Hong Kong e nello stesso centro commerciale che ospita anche 8 1/2 di Umberto Bombana (primo Déja vu!). Il locale dello chef italiano al primo piano, quello del cuoco francese al secondo.

L’Atelier, poi, non è solo un semplice ristorante: al suo interno, infatti, oltre a Le Jardin, è possibile trovare anche un bistrot e una sala da tè.

Robuchon, un’istituzione della cucina francese, possiede diverse attività in giro per il mondo, molte delle quali stellate. Solo in Asia, però, è riuscito a fregiarsi del più alto riconoscimento della Guida Michelin. E addirittura in tre posti: a Singapore, a Macao e proprio qui a Honk Kong con L’Atelier Le Jardin.

La prima cosa che si nota entrando nel ristorante, è la cantina. Enorme, profonda, bellissima. Vanta la bellezza di 16.500 bottiglie, piazzandosi al secondo posto tra le cantine più fornite del mondo. Solo quella di un locale tedesco riesce a superarla e nemmeno di molto. Almeno così mi spiega il restaurant manager che poi mi fa strada verso il tavolo.

La sala, non ampissima, ospita un quarantina commensali: si sviluppa verso una vetrata, che dà su un giardino d’inverno che a sua volta affaccia sulla solita via ricca di negozi. I tavoli, tutti in legno, sono attorniati da meravigliose poltroncine in pelle. Tutto appare molto curato, molto raffinato. Molto francese.

Passo all’ordine, scegliendo il menù da 4 portate e optando per un bicchiere di vino. Uno Chateau Le Gay Pomerol del 2008: un rosso strutturato ed equilibrato, con aromi ai frutti rossi, punte di sottobosco e note speziate sostenute da una leggera acidità.

In attesa dell’amuse bouche mi dedico al classico cestino di pane, posto al centro del tavolo, da gustare con il burro, servito sia salato che dolce. Tra le diverse varietà proposte, mi esalata quello al bacon: squisito.

Si comincia con un gambero avvolto da pasta fillo, fritto, accompagnato da una ciotolina molto graziosa, contenente una gelè di pomodori alla base e una spuma di salsa di mango.

Passiamo alla zuppa di pomodori con broccoletti, fiori di broccoletto e cous cous. E’ una classica zuppa francese, piena di aglio e cipolla dotata di una sapidità molto pronunciata.

E’ il momento del Langoustine: lo scampo, con una salsa alla base realizzata con il succo dello scampo e mantecata in un fiume di burro, chips di patate e raviolini di pasta di riso, ripieni di piselli freschi e fiori di piselli. Piatto bello a vedersi e soprattutto buono a mangiarsi.

Arriva la carne: maiale iberico, appena scottato con timo e salsa del maiale stesso, marinato nella soia, per dargli un bel tocco “cinese”. Ad accompagnare il tutto una crema di chily e una crocchetta ripiena di riso, piselli e altri vegetali. Un supplì, in poche parole.

A chiudere il pasto, il classico vassoio dei formaggi (tre tipi dei quali non mi spiegano la provenienza, limitandosi a descriverli come “duro”, “morbido” e “gorgonzola”) e la piccola pasticceria: un cioccolatino, una tartelletta con il cocco, una con lampone, cioccolato e pistacchio, una con lo zabaione e arachidi e una cremina alla vaniglia e frutto della passione.

Mentre mi avvicino ai bagni, per la mia solita “ispezione” (pulitissimi, anche perché ci si trova in un centro commerciale) rifletto su questa esperienza: impazzisco per la cantina e per il libro del vino. Sembra un’opera di David Foster Wallace per quanto è lunga e interessante. Mi piace la location e l’arredamento: trovo il ristorante curato e raffinato. Ma normalissimo. Esattamente identico a mille altri locali francesi e soprattutto uguale a tutte le altre attività di Joel Robuchon.

I piatti non posso dire mi abbiano deluso, ma nemmeno esaltato: nessuno è riuscito  farmi saltare dalla sedia.

Tutto troppo uguale, identico, ripetitivo, prevedibile.

Noioso.

Un lungo ed estenuante dèja vu.

Voto finale tre barbe.



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