È un venerdì mattina ed è presto. Ho freddo. E non solo non posso accendere i riscaldamenti (consumiamo troppo) ma nemmeno illuminare la stanza. Sveglierei tutti. Mi devo accontentare dei flebili raggi di sole che entrano timidi dai pochi orifizi rimasti aperti negli interstizi delle tapparelle.
È il 31 gennaio.
Lo so anche senza guardare il calendario. Impossibile sbagliare.
Oggi ho l’ultima interrogazione del quadrimestre e devo andare necessariamente bene se voglio chiudere in maniera dignitosa i miei primi mesi da liceale.
Infilo le scarpe. Entro in cucina e smozzico un cornetto al sapor di ansia molto lontano da quello che doveva essere il suo splendore originale. Soprattutto ascolto il respiro dei miei. Di mio fratello. Dormono nei propri letti, ognuno alle prese con una forma influenzale diversa. Resisto solo io. Una forma di Will Smith in “L’ultimo uomo sulla terra” ma senza cane. Come compagno ho uno zaino pesante e scarabocchiato e una sensazione, difficile da digerire, di invidia mista a stanchezza. Sono giorni che studio. Che non vedo gli amici. Che non mi diverto. Che mi sveglio prestissimo e vado a dormire tardi solo per capire il funzionamento dei vulcani, la forma passiva inglese, tradurre dal latino o risolvere non so quale problema di algebra.
Sono sfinito.
Mi dico che basta un ultimo sforzo. Che dormirò nel pomeriggio. Che poi avrò il weekend per riposarmi, stendermi sul divano, radiolina all’orecchio e godermi la domenica di Serie A. E lo faccio mentre percorro a piedi gli ottocento metri che mi separano dalla fermata dell’autobus. Fortunatamente in discesa.
Fa freddo per strada. Un freddo capace di penetrarti le ossa. Ma la puzza di sigaretta, mista a sudore e altri odori indefiniti che avverto salendo sul pullman è forse pure peggio.
Cerco i miei compagni di classe. Sono seduti in fondo e confabulano sfogliando le pagine di un giornale.
– Chi abbiamo preso? – mi introduco pensando si parli del calcio mercato invernale.
– Ancora col pallone… – mi canzona uno – Non hai visto che c’è una cometa che si sta avvicinando alla Terra. Per me ci cade addosso e facciamo la fine dei dinosauri –
– Si vabbè – interviene un altro, il più secchione – intanto si chiama Hale-Bopp e poi non si schianterà qua. Ci girerà semplicemente intorno. Se poi si scoprirà che la sua traiettoria è cambiata, manderemo uno shuttle ad abbatterla –
– Uno shuttle? – chiedo – Che cos’è? –
– Sei scemo? – ribatte un terzo – Non hai mai sentito questa parola? –
Li guardo inebetito.
-È un razzo spaziale. Svegliati! –
È il 1997. E Internet, la Tv Satellitare, pensate gli Smartphone e i Tablet, sono ancora molto lontani dalla mia realtà. Persino la Roma non ha ancora vinto il suo terzo Scudetto…
È questo il ricordo, veloce come un flash, che mi ha provocato un’accecante Porsche Panamera, donata dalla casa automobilistica al La Vie per trasportare i clienti che ne facciano richiesta e anche per farsi un po’ di pubblicità. Una sorta di shuttle bus: esattamente la parola che imparai più di vent’anni fa a bordo di quel minuscolo e angusto pulmino.
Mi trovo in Germania, ad Osnabrück, piccola città della bassa Sassonia a duecento chilometri dall’aeroporto di Colonia e a quasi trecento da quello di Francoforte. Che, per chi non lo sapesse, è uno dei più grandi d’Europa.
In un edificio del 1600, trasformato in palazzo residenziale da un commerciante di nome Ernst Friedrich Tenge, circa duecento anni dopo. Esattamente nel 1813. Si tratta di un palazzo storico, non solo per la data di costruzione ma anche perché fa da “specchio” al Municipio di Osnabrück dove nel 1648 venne firmata la Pace di Vestfalia. Praticamente la fine della guerra dei trent’anni. Ma questa è tutta un’altra storia.
Quella che voglio raccontarvi oggi riguarda chef Thomas Bühner e il suo La Vie, ristorante aperto proprio nel palazzo di cui vi parlavo nel 2006, insieme alla moglie dal nome quasi impronunciabile: Thayarni Kanagaratnam.
Anche solo dalla strada, il locale del cuoco tedesco appare meraviglioso. Immaginate al suo interno. Vetrate che danno sulla via principale di Osnabrück, un ingresso molto classico ma molto curato del quale mi colpisce soprattutto una splendida boiserie.
Descrivere la disposizione delle sale de La Vie non è semplicissimo ma è mio compito provarci. Altrimenti che Uomo delle Stelle sarei? Superata l’entrata, troviamo a destra la cucina del ristorante, mentre a sinistra un piccolo bistrot: un locale più informale con due tavoli al piano terra e due al primo piano. Lo stesso vale per La Vie che possiede due sale: la prima che viene aperta solitamente a pranzo e che presenta solo cinque tavoli. La seconda, invece, viene sdoganata al pubblico solo per eventi particolari o per cene un po’ più impegnative. Vanta otto tavoli.
Al secondo piano, oltre ad un piccola sala fumatori, troviamo un’altra cucina: utilizzata da chef Bühner per i suoi corsi e per finire i piatti da portare poi ai commensali. Al terzo piano, infine, si mostra in tutta la sua bellezza la cantina: bellissima, in legno e pietra possiede muri larghissimi capaci di mantenere la temperatura giusta, utile alla conservazione delle bottiglie. Ad una prima analisi, confermata anche dalla carta dei vini, non mi pare che La Vie abbia una scelta molto “profonda”. Mi sembrano molto più preparati sui vini tedeschi e francesi che sugli altri. Mi lascio, comunque, consigliare dal sommelier che mi suggerisce due differenti tipi di scelte: un Domkapitel Ungefiltert Tschida Illmitz e un Manz Kranzberg Weissburgunder. Il primo, un rosso 50% Cabernet Sauvignon e 50% Zweigelt, risulta ingengoso ma delicato. Presenta note fresche e affumicate, sentori di liquirizia, ribes nero e olive nere. Il secondo, un Pinot bianco, prosperando su profonde rocce calcaree presenta una struttura solida e minerale che improvvisamente sul finale diventa cremoso. Interessante il retrogusto di mela e melone che si avverte anche molti secondi dopo averlo assaggiato.
Passiamo al menù: ne esistono tre al La Vie. Il lunch, il tradizione e qualità (i piatti più famosi di Bühner) e il Gran Chef (pietanze innovative e all’avanguardia delle quali il cuoco va molo fiero). Opto per il secondo e mi preparo a vivere la mia nuova esperienza stellata.
Cominciamo con l’amuse bouche davvero interessante: il piatto sembra una piccola vasca da bagno di forma circolare. La schiuma, a richiamare un po’ l’effetto sali da bagno, è fatta di mango e limone. Al centro, invece, c’è una paperella: come quella di gomma con cui giocano i bambini. È ricostruita con il foie gras: geniale e molto simpatica. Mi viene servito anche il pane, con dell’olio spagnolo e del burro salato.
È il momento del primo vero piatto: King Crab, Mandarin e Gingerbread. Granchio reale con una cialda di caviale e mandarino in due consistenze: salsa e noce di gelato. Poi un mandarino glassato. La pietanza è bellissima a vedersi e soprattutto buonissima a mangiarsi. In più rimango affascinato dall’impiattamento di Bühner: dispone il cibo in maniera circolare come se avesse un goniometro. Stupefacente.
Si continua con il Dorade Royal: carpaccio di spigola cruda, pelle di vitello croccante, fagiolini e melone fatto a palline per dare un po’ di freschezza. Il tutto innaffiato da un’acqua di fagioli aromatizza con spezie varie, basilico e alloro.
Poi arriva il Breton Turbot: rombo bretone, con una spuma di champagne (che non mi è piaciuta moltissimo), una cipolla glassata e una splendida crema di zucca molto buona e densa.
Si arriva, dunque, al classico della cucina francese e italiana: Périgord Truffle Ravioli, i ravioli al tartufo. Si tratta di cinque ravioli fatti in casa, ripieni di una purea di tartufo, riproposto anche come decorazione a riccioli. Poi pezzettini di mela per dare quel tocco di freschezza che può mancare ad un piatto molto invernale.
Continuiamo con Potato Cream, Mimolette: crema di patate con la mimolette: un formaggio di colore arancione, prodotto a Lille, da grattare prima di mangiare.
Proseguiamo con Venison with winter Spices: carne di cervo Venison con spezie invernali e cavolo rosso glassato. È buonissimo, anche perché completato da una purea di patate, del cavolo verde croccante e vari pezzettini di pistacchio.
Chiudiamo con i dessert: anguria, listarelle di uva, gelato alla soia e un croccante al sesamo e un soufflè al caramello, con gelato al biancospino e frutta varia, compresa qualche tipologia esotica.
Come dimenticare la piccola pasticceria? Al tavolo mi arriva un distributore di gomme da masticare. Identico a quelli che da bambini trovavamo fuori al bar e riempivamo di monete pur di girare quella manopola e ricevere qualcosa in cambio. Il mio “premio” di oggi sono cioccolatini allo zenzero, ai mirtilli, al pistacchio. Poi, dentro un piatto a parte, palle di cacao agli anacardi e al cioccolato bianco, oltre che una stupenda foglia glassata con cioccolata bianca e caffè e un macaron al cioccolato al 70%.
Prima di andare via faccio il mio solito giro ai bagni (pulitissimi e davvero da ammirare) e infine parlo con lo chef. Mi spiega che la sua cucina, per quanto appassionata, appare davvero rigorosa e precisa. Apprezzo la simpatia dello chef: mi gratifica moltissimo la sua umanità.
La vie merita quattro barbe.