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Che cielo uggioso…

Quando le nuvole si compattano in questo modo, trasformandosi in una coltre grigia apparentemente impenetrabile, la mia voglia di respirare di pancia aumenta. Impennandosi all’improvviso, in maniera quasi incontenibile. Irresistibile è il termine giusto: sembra che di colpo non ci sia cosa più importante che gonfiare e sgonfiare il diaframma.

Sarà che non sono mai stato un tipo sedentario (e il mio “lavoro” lo dimostra).

Sarà che ho sempre amato viaggiare. Se non fisicamente almeno con la testa e voi lo sapete bene.

Sarà che non ho mai sopportato le gabbie o comunque le situazioni, reali o meno, che ti intrappolano.

Per questo motivo il non riuscire a vedere il Sole o comunque il non sentirlo sulla pelle, saperlo incastrato al di là di questo manto color cemento, un po’ mi irrita.

Strano vero? Da cosa deriva questa forma di nervosismo? In fondo non c’è niente che non va. Non ci sono problematiche complesse all’orizzonte, niente di reale che mi preoccupa. In più sono anche pronto a fare, di nuovo, quello che amo fare.

Eppure…

Il fatto è che non riesco a capire esattamente i nostri ruoli. Il mio e del Sole intendo. Chi è il vero prigioniero? Io con i piedi ben piantati a terra e il naso all’insù alla ricerca di qualche raggio fuggiasco, ben attento a non farmi scivolare gli occhiali dalla testa? O il Sole stesso, a cui buttafuori vestiti di grigio impediscono di passare? Mi pare di vederlo: ondeggia da una parte all’altra, si alza sulle punte, tenta di scavalcare i totem corporei dei suoi carcerieri per vedere se alle loro spalle c’è qualcuno che conosce. Qualcuno che può farlo entrare. Qualcuno che comunichi a questi due tizi che è in lista, che ha il diritto di passare.

Altro volo pindarico…

Gli uccelli mi imitano ma planano bassi, convincendomi a fare lo stesso. Basta pensieri e fantasie. E’ tempo di tornare alla realtà, varcare una nuova soglia e raccontarvi un’altra storia.

Sono ancora in Italia. E no, non vi preoccupate: l’effetto pallina matta in giro per il mondo non mi crea alcun problema. Forse un po’ di difficoltà con il sonno ma nulla di irreparabile.

Dopo l’esperienza stellata di Andrea Berton, eccomi di nuovo lungo la strada del progetto “Tu scendi dalle Stelle”.

Ho sentito l’esigenza di sfruttare l’onda lunga della pace, quasi estatica, avvertita durante i pochi giorni off per le festività pasquali.

Avevo semplicemente voglia di tranquillità.

Basta grandi metropoli, basta traffico, aeroporti, check in, camere d’albergo. E’ tempo di passare qualche giorno tra il verde. Meglio ancora se circondati da distese quasi infinite di vigneti.

E allora mi sono ricordato di questo posto, Pescina per essere precisi, che qualche nostro lettore mi aveva suggerito. Detto fatto: ho preso l’ennesimo aereo, sono sbarcato a Roma e dopo circa tre ore di macchina, eccomi nel grossetano.

Sono pronto a mangiare da La Scottiglia: ristorante chiaramente non stellato ma di qualità. Garantiscono i nostri followers, spesso più preparati di qualsiasi guida.

La pace.

Questo è il primo particolare che mi colpisce avvicinandomi al ristorante. Non è una sensazione, assomiglia più a qualcosa di reale, quasi di presente. Come fosse una persona. Disturbata, di tanto in tanto, solo dal rombare di qualche auto che sfreccia su una strada talmente vuota da far morire di invidia chi vive in città.

Torniamo a La Scottiglia, comunque, un ristorante storico, nato addirittura nel 1890 e gestito da cinque generazioni dalla famiglia Magini.

Centoventotto anni di storia, dunque, per un locale che ha perso davvero pochissimo della mission per la quale era stato pensato. La Scottiglia, infatti (che inizialmente si chiamava Da Momo) sorge con l’intento preciso di accogliere i viandanti che in viaggio dalla Val D’Orcia attraversavano il Monte Amiata per raggiungere la Maremma. Una locanda, quindi, una vocazione ancora viva nel 2019, visto che La Scottiglia è dotata anche di un hotel due stelle da ben otto camere.

La domanda, a questo punto, nasce spontanea: perché il ristorante ha cambiato nome nel corso del tempo? Presto spiegato: la specialità della casa, dal 1890 ad oggi, è sempre stata La Scottiglia. Si tratta di una pietanza molto umile: una zuppa che all’epoca veniva realizzata con ogni tipo di carne a disposizione, adagiata sul pane raffermo e condita con un olio extravergine da far girare la testa. Il piatto era talmente amato dai commensali che il ristorante (nel 1972) si vide costretto a cambiare il nome, così da dare ancora maggior risalto a questa prelibatezza locale.

Entriamo nel vivo della questione, però, e passiamo alla descrizione della location. Il dehor lascia un po’ a desiderare: il panorama è pazzesco (come dicevo lande vastissime di vigneti) e i tavolini in plastica verde (tipici da giardino) rischiano di “sporcarlo” troppo. Discorso diverso per l’interno: il bancone della reception introduce a tre sale, delle quali, quella in cui mi accomodo, risulta essere la più piccola e di conseguenza la più riservata. L’ambiente è “rustico”, come si addice allo spirito della locanda: tavoli in legno, sedie in vimini, tovaglie bianche e posateria nella norma.

Non esiste un menù degustazione a La Scottiglia, si può ordinare soltanto alla carta. Questo, però, non mi impedisce di chiedere al cameriere, un ragazzo simpatico e molto preparato, di suggerirmi tutte le specialità che vale la pena assaggiare.

Cominciamo con l’amuse bouche: una vellutata di verdure miste con un filo d’olio locale. La consistenza è ottima, il sapore molto persistente, piacevole anche il retrogusto amaro che lascia e il piccante dell’olio capace di “portare su” il piatto. Non male come inizio.

Degusto l’aperitivo con un bicchiere di Tener Banfi: parliamo di un brut 70% Chardonnay e 30% Sauvignon, dotato di un’ottima freschezza e di una beva invidiabile.

Continuiamo con gli antipasti: selezione di salami e formaggi e battuta al coltello di manzo al Timo, Erba Cipollina e olio di Olivastra Seggianese. La carne è veramente ottima, in più il rosso d’uovo riesce a darle quella nota di dolcezza smorzata solo dalla salsa alla senape appena “appoggiata” nel piatto.

E’ il momento del vino: la carta non è… cartacea, ma elettronica, contenuta all’interno di un iPad. Di nuovo mi fido delle conoscenze del cameriere: un Marjon della cantina Tramin. Parliamo di un rosso, un Pinot Nero 2015 in purezza.  Di un colore rosso rubino con sfumature granate, al naso presenta sentori di frutti di bosco, prugna e ciliegia con preziosi accenni speziati, ancora più evidenziato in un finale fruttato e succoso.

Passiamo ai primi: immancabile, chiaramente una porzione di scottiglia. Come detto parliamo di una zuppa di carne, mista a ragù, messa in cottura per una decina di ore. Mi spiegano si tratti di un prodotto PAT: prodotto agroalimentare tradizionale italiano.

Poi le tagliatelle con farina di castagne al ragù di cinghiale: l’impiattamento non è dei migliori (molto anni ’80) ma il gusto è strepitoso. Davvero da applausi.

Chiudiamo con il filetto di maiale. La carne è cotta alla perfezione, ottima la sensazione “farinosa” tipica delle patate, anche se forse avrei gradito un pizzico di sale in più.

Passiamo alle considerazioni finali. Nonostante l’aria molto da locanda, e non potrebbe essere altrimenti vista la precisa identità con la quale è nato questo ristorante, La Scottiglia è un locale per il quale vale “la deviazione”. La location è da brividi e anche i loro cavalli di battaglia, chiaramente i piatti, sono davvero da provare. Se la famiglia Magini accetta un consiglio, le suggerirei di curare un po’ di più porzioni, impiattamento e soprattutto mise en place. Non ci vuole poi molto per entrare nell’elite.


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