Una cosa l’ho capita: che ci si trovi a Bray, Crissier, Lugano o Castellamare di Stabia, i ristoranti con cucina francese sono tutti uguali.
Sembra sempre di essere a Parigi.
Questo è il loro principale lato negativo: non si caratterizzano in nessun modo. Quello positivo, invece, ruota intorno all’organizzazione delle portate. Il che mi permette di comprendere anche il modo in cui ragionano le guide specializzate. Mi spiego: a differenza della cucina italiana, che incentra tutti i suoi pasti su primi piatti piuttosto corposi e importanti, quella francese può far ruotare i suoi menù intorno alla portata principale. Il main course, per capirsi. Questo consente ai ristoranti transalpini di avere un briciolo di vantaggio sugli altri. E quindi di essere sempre in testa nelle classifiche di settore.
E’ il caso de L’Hotel de Ville, locale con sede a Crissier, ridente cittadina di mezza montagna, con vista sul lago di Losanna. Ristorante svizzero, dunque, ma chiaramente di cultura francese, nominato nel 2017 da La Liste (guida nata in opposizione al The World’s 50 best restaurant), come il miglior ristorante del mondo. Merito del lavoro dello chef Benoit Violier, morto suicida solamente un anno fa, alla cui memoria è intitolato lo stesso L’Hotel de Ville. I motivi del suo decesso (cercati tra le cause più disparate come problemi economici, truffe, esaurimento nervoso) non sono ancora stati spiegati. O meglio, nessuno si è mai preso la briga di domandare alla moglie di Violier, Brigitte, per quale motivo lo chef abbia deciso di togliersi la vita a soli 44 anni e solo qualche mese dopo essere stato insignito con il titolo di miglior cuoco del mondo. Magari lo farà un giornalista di So Wine So Food e nemmeno tra troppo tempo. Ma questa è un’altra storia…
Ora la cucina de L’Hotel de Ville è gestita da Franck Giovannini, sous-chef di Violier che a sua volta aveva ereditato il locale da Philippe Rochat. E’ molto interessante veder lavorare Giovannini: per quanto sia mediamente giovane, gestisce la sua brigata in modo deciso. Le cucine sono enormi, più di 350 metri quadri, e vedono 20 ragazzi divisi tra la preparazione dei vari piatti e ben cinque solo ai dessert.
Prima di dedicarmi al menù, il business lunch composto da sei portate, mi concentro sullo studio dei bagni (puliti, essenziali e molto francesi) e poi a quello della sala. Può contenere circa 45 commensali e al centro mostra una bellissima isola, sovrastata da un meraviglioso lampadario in vetro, dove lo staff rifinisce le portate o poggia le bottiglie di vino. L’Hotel de Ville possiede una carta dei vini di 37 pagine: mi colpisce la grande scelta di magnum, di diversi tipi e grandezza. Magari sarò stato distratto in precedenza, ma non mi sembra di aver riscontrato nulla di simile nei ristoranti già visitati.
Nel frattempo Giovannini mi spiega che i suoi piatti (così come quelli di Passard o Lesquer) sono molto incentrati sulle verdure. Inoltre non ama utilizzare un ingrediente al quale la cultura francese è molto legata: il burro. Per preparare le sue infinite salse preferisce concentrarsi sulla crema di latte, perché come insegna Heinz Beck, il pranzo o la cena non finiscono quando ti alzi dalla tavola, ma quando tornato a casa fai i conti con lo stomaco…
Chiedo la degustazione dei vini. Me ne propongono tre: due bianchi e un rosso. I primi due sono quelli che mi colpiscono di più: un Domaine Chanson, Pernard-Vergelesses Premier Cru Les Caradeux, ben strutturato ed equilibrato, dal colore dorato pallido, vanta profumi di agrumi mescolati a mela e miele fresco. E’ dotato, inoltre, di una bella mineralità e di delicate note di quercia. Poi un Philippe Darioli Pinot Bianco: un vino aristocratico e molto delicato, con aromi freschi di frutta.
Ad aprire le danze arriva un antipasto freddo: una tagliatina d’astice, disposta in modo circolare, con al centro una salsina d’astice, leggermente rappresa, un pomodoro con astice decorato con una crema zigzagata e un succo di pomodoro. Sul piatto anche insalata, varie riduzioni e petali di buccia di pomodoro.
Oltre ad una vasta scelta di pane, mi vengono serviti anche dei raviolini semi-vegeteriani: ripieni di fagiolini, con crema di fagiolini, prezzemolo e pistacchio, sono ricoperti di caviale. Davvero buonissimi.
E’ il momento della triglia: cotta dalla parte della pelle, con chips di basilico, salsa al basilico e una patata scavata con dentro peperoni rossi dolci.
Rispetto al menù originale decido di cambiare il main course e di concentrarmi sull’anatraccolo. Viene preparato per un’unica persona (se si è in due o più di due, è consigliabile ordinare direttamente l’anatra), ed è cotto a basse temperature prima di essere scottato. Disossato al tavolo dal restaurant manager con una manualità invidiabile, è laccato con una salsa ai frutti rossi, che è utilizzata anche come salsa d’accompagnamento. La cosa davvero interessante dell’anatroccolo è che viene prima servito il petto. Il resto viene riportato in cucina per proseguirne la cottura delle cosce, che ovviamente hanno bisogno di più tempo. E’ un piatto incredibile e squisito. Di gran lunga l’anatra più buona mangiata in vita mia.
Chiudiamo con i dolci: un sorbetto alla pesca, un gelato alla pesca, cioccolato bianco e pesca e un biscottino al sapore di pesca con crema chantilly alla pesca. Poi una granita di pesca e una pesca sciroppata. Infine un soufflé vaniglia e albicocca davvero da urlo: solo a pensarci mi torna l’acquolina in bocca. Il sipario cala con la piccola pasticceria e un infuso alla verbena.
E’ proprio alla fine del pranzo che sorge la prima nota negativa della giornata: nell’incrocio di turni dello staff (tra chi smonta e chi attacca) vengo abbandonato al tavolo e devo aspettare addirittura 25 minuti prima che mi venga presentato il conto. Tra l’altro anche abbastanza fuori mercato.
Ma di questo argomento parleremo tra qualche giorno…
Voto finale 3 barbe e mezza.