Detesto la pioggia.
Non in quanto fenomeno atmosferico ma per tutto quello che porta con sé. Da quel fastidioso cerchio alla testa, che per forma e dimensioni dovrebbe essere capace di renderti, non dico santo ma almeno beato, a tutte le sensazioni che è in grado di farmi esplodere nel petto. C’è un chirurgo in sala? O almeno un radiologo? Ho bisogno di una “lastra”: voglio scoprire se al di sotto del mio sterno si staglia un piccolo alambicco. E un puntiglioso alchimista, chiaramente. Al quale piace giocare. Miscelare i neurotrasmettitori del mio corpo alla ricerca dell’elisir di lunga vita.
Detesto la pioggia.
Ma l’ho studiata a lungo. La conosco. L’ho vissuta. La vivo. Me la sono lasciata scivolare addosso. Ho permesso ai miei pori di accoglierne ogni goccia. Risucchiata in me come fosse un balsamo. Da raccogliere e utilizzare nei momenti di bisogno. In fondo, in quanto esseri umani, siamo fatti al 70% di acqua no? Io la penso diversamente: siamo fatti di pioggia. Di tutta quella con la quale abbiamo cercato di lavare i nostri “peccati”. I nostri brutti pensieri. Se qualcuno si chiedesse perché le gocce precipitano, io potrei fornire una risposta. Vengono giù, come ordigni durante un bombardamento, perché appesantite da sensazioni che i più non perdono occasione per denigrare. Malinconia, pessimismi, inquietudine, tristezza. La differenza tra essere profondi ed essere pesanti…
Detesto la pioggia. Per non parlare del freddo.
Ha la forza di far impazzire completamente le cellule del mio corpo. Mandarmi fuori di testa. Specie quando, per lavoro, in meno di dieci giorni sei costretto a passare dal caldo umido asiatico, al cielo uggioso dell’Olanda, transitando per il gelo pungente delle Dolomiti. Roba da far impazzire il più preciso dei barometri. Figurarsi un essere umano con tutti i suoi “difetti nucleari”.
Detesto la pioggia.
E tollero con difficoltà il freddo.
Per quanto sia questo lo scenario che mi trovo a vivere, oggi non mi sento triste. Nulla è stato capace di scalfire un’immotivata serenità. Non l’ennesimo sfiancate viaggio in aereo. Non i 200 km da coprire in auto per arrivare a destinazione. Kruiningen, piccola località dei Paesi Bassi situata nella provincia della Zelanda. Il luogo dove ha sede l’Inter Scaldes, il ristorante Tre stelle Michelin che sto per visitare.
Scommetto che questo nome, qualcosa vi dice. Intendo Zelanda. Proprio da qui, infatti, sono partite diverse spedizioni di esploratori olandesi diretti in Oceania, dove in seguito al loro arrivo è nata proprio la Nuova Zelanda. Che figata! Mi piacciono queste digressioni storiche. Ma ora torniamo al motivo della mia presenza qui. Per di più al freddo e al gelo.
Fondato nel 1968 da Maarte e Kees Boudeling che proprio in quell’anno acquistarono la proprietà di una caserma presto trasformata in un ristorante e in un hotel (ora cinque stelle extralusso), l’Inter Scaldes ha raggiunto l’olimpo della ristorazione solo da un paio di anni. Nonostante, infatti, le prime due Stelle siano arrivate rispettivamente nel 1977 e nel 1982, ci sono voluti più di cinque lustri per conquistare la terza. Ora bellissima e luminosa all’ingresso del locale. Lo chef Jannis Brevet è stato scelto proprio da Kees Boudeling e lavora nelle cucine dell’Inter Scaldes dal lontano 2001.
Per quanto questo ristorante sia chiaramente olandese, ha una conformazione molto francese. Non parlo dei piatti. O almeno non solo. Mi riferisco soprattutto alla mise en place, all’organizzazione del lavoro, allo stesso modo di impiattare: pulito, minimale, chiaro. La sala (rigorosamente sold out) è capace di contenere una cinquantina di commensali e si compone di meravigliosi tavoli rotondi coperti da splendide tovaglie bianche. Sulle quali, non appena si arriva, si può ammirare una posateria di altissimo livello.
Parto subito con l’ordine: voglio “assaggiare” l’idea di cucina dello chef. Cominciamo con degli “aperitivi gustosi”: Barbabietola, rosa, ananas e latticello; gamberetti olandesi, cavolfiore, sottaceti e salsa piccalilly e infine l’anguilla affumicata con fagioli bianchi e caffè.
Si entra nel vivo della cena: cominciamo con il Caviar, il Caviale. Parliamo di una specie di “torri”, fatte con la purea di avocado e sormontate da un flan di cocco aromatizzato, cocco fresco e un cucchiaio di Anna Dutch Gold. Questa è una delle creazioni più interessanti di chef Brevet: un piatto equilibrato, nonostante sia pieno di contrasti.
Per quanto riguarda il vino mi lascio consigliare dal sommellier. Mi propone un pairing che accetto ben volentieri. Praticamente abbina un bicchiere ad ogni piatto: Weingut Schloss Gobelsburg Grüner Veltliner Langenlois, un bianco austriaco, molto “sbarazzino” dotato di una buona acidità, smorzata nel finale. Murua del 2016: un ottimo bianco invecchiato in barrique. Mme Aly Duhr et fils, un Riesling del 2016: elegante e bilanciato, al naso presenta note di frutta esotica mentre al gusto vanta una profonda acidità e un ottimo corpo. Altair del 2016: vino italiano prodotto in Toscana, di un colore giallo paglierino intenso, appare secco ma avvolgente. Wijngoed Thorn 2018: una delle bottiglie più giovani che ho bevuto all’Inter Scaldes, il palato registra note di vaniglia, cherries e caffè. Si arriva alla fine del bicchiere con una grande facilità. Bonnezeaux Le Malabe: all’olfatto è possibile percepire numerose essenze floreali legate meravigliosamente al profumo di miele, caramello e vaniglia. Al palato, invece, quello che colpisce è un finale lungo e leggermente amarognolo. Agios Trempanillo Garnacha Tinta: vino spagnolo dalle numerose note speziate.
Proseguiamo con il foie gras bio, condito con mela, frutta della passione, del Porto invecchiato e del parmigiano reggiano e il King Crab servito con mango, agrumi, fagioli di Tonka e whisky Oban. A questa pietanza va data una menzione d’onore: all’occhio non sembra così interessante ma il gusto è da far girare la testa. Ottimo.
Chiudiamo con le triglie rosse con rapa, albicocca e salsa Verjus; la sogliola al limone con peperoncino piquillo, carciofo e riso Koji e il filetto di agnello servito con finocchio, lavanda di mare, timo e ancora peperoncino.
Passiamo al dolce: dita di Buddha con mascarpone, bambu e arancia e il mio preferito: Bal Masquè, ovvero “palla mascherata”. Si tratta di una sfera da rompere con il cucchiaio, per liberare il suo interno: ananas victoria, mela, cardamomo e Bourbon alla vaniglia. Fantastico.
E’ il momento delle mie valutazioni: dire che l’Inter Scaldes non è un ristorante di livello sarebbe raccontare bugie. Lo è. In fondo è un tre Stelle Michelin! E per quanto la location sia bella, anche se complicata da raggiungere e il servizio impeccabile, non ho trovato nulla capace di farmi saltare dalla sedia.
