Prima il piacere e poi il dovere.
Si dice così, no? No.
In effetti, a ripensarci bene, credo che il detto fosse diverso. Già.
Ci riprovo.
Vi piace tipo: prima il piacere e poi il piacere?
Dai, scherzo! Non vi arrabbiate…
Volevo solo attirare la vostra attenzione. Anche se, a leggere la seconda versione che vi ho proposto, ho l’impressione che suoni benissimo: ne convenite? Certamente appare più vera. Pur solo considerando il fatto che occorre davvero avere una “faccia di bronzo” come la mia per definire questo lavoro, un “dovere”.
State sorridendo, ora. Vi vedo.
Starete pensando: “E infatti! Chissà quale fatica deve rappresentare spostarsi da una città all’altra, da una nazione all’altra, per provare ogni giorno una cucina diversa…”. Come darvi torto. Sebbene, credetemi, non è così semplice conoscere il giorno della partenza e non quello del ritorno.
Per carità: mi vengono in mente almeno un milione di problemi più pesanti e pressanti di questo, ma ogni mestiere ha i suoi inconvenienti. Così come ogni mansione possiede i suoi vantaggi e i suoi momenti di gloria.
E per fortuna che nell’appartamento dove vivo a Roma, e del quale ormai faccio fatica anche ricordare il colore delle pareti, non mi aspetta nessuno. Né un essere umano né un animale. Altrimenti riuscite a immaginare le difficoltà? Da una recente ricerca, pare che nel mondo, il più alto tasso di separazioni e divorzi coinvolga i giornalisti. Ma io non lo sono, no? Di lavoro svolgo l’avventore. Al massimo lo scrittore. Ecco sull’ultima, come al solito, ho esagerato…
Tutta questa introduzione, comunque, non serve ad altro che a dare un annuncio: sono tornato alle origini. In che senso? Semplicemente per qualche ora ho deciso di interrompere il progetto “Tu Scendi dalle Stelle” per tornare a quello iniziale. All’idea embrionale del nostro road trip.
Per cui, visto che mi trovavo a Milano per mangiare nel locale di Eugenio Boer, ho deciso di fare un salto anche a Il luogo di Aimo e Nadia.
Devo essere sincero: non lo avevo in programma. Quella in Lombardia doveva essere una toccata e fuga. Una sorta di pit stop prima del trasferimento in Nord d’Europa. Ma, poi, dialogando con qualche amico di zona, mi sono ricordato che uno dei riferimenti enogastronomici italiani degli ultimi sessant’anni aveva appena terminato una ristrutturazione radicale. La prima della sua storia. Cos’altro dovevo aspettare? Ho preso in mano telefono, taccuino e coraggio e ho prenotato il mio tavolo.
Il luogo di Aimo e Nadia ha una storia che dura più di mezzo secolo. Prende il nome dai suoi fondatori: Aimo e Nadia Moroni, la cui missione di vita consisteva nel cercare, e quindi trovare, i migliori ingredienti che il territorio italiano fosse in grado di produrre. Il passo successivo, invece, era tramutarli in piatti strepitosi attraverso, soprattutto, l’utilizzo delle giuste tecniche di preparazione.
Esattamente cinquantasei anni dopo, i nuovi chef: Alessandro Negrini e Fabio Pisani stanno cercando di seguire lo stesso percorso. Pur rimanendo molto ancorati alla realtà, abbracciati stretti all’attualità e alla cultura enogastronomica contemporanea, e sotto la sapiente guida della figlia dei due fondatori: Stefania Moroni.
Ma torniamo al locale: Il luogo di Aimo e Nadia, che può vantare ben due Stelle Michelin, sorge in Via Montecuccoli e non esattamente nel quartiere più in di Milano, per quanto sia vicinissimo al Castello Sforzesco e quindi al centro. Vi si accede da una splendida entrata a vetri che dà su due sale: capienti e quasi sempre in overbooking. Segno che il locale gode di ottima salute.
La prima cosa che rapisce la mia attenzione è la sobrietà del ristorante: il bianco, infatti, è il colore dominante. Seguito dal grigio in diverse tonalità e dal tortora.
Il posto che mi è stato riservato si trova nella più piccola delle due sale, quella che può ospitare fino a quattro tavolini e che si trova a metà strada tra l’ingresso e l’entrata della cucina.
La tovaglia, bianca chiaramente e di fiandra, ospita un libro. In realtà è una lampada che si accende non appena si aprono le pagine. L’idea mi conquista: è interessante e innovativa. Splendido anche il bicchiere dell’acqua: pieno di colori e fatto a mano. Stupendo.
Ne Il luogo di Aimo e Nadia si presta molta attenzione all’arte: pensate che la copertina del menù è stata dipinta da un’artista molto quotato, Paolo Ferrari. Che proprio in onore di questo ristorante ha realizzato un’opera intitolata “L’assenza”.
A differenza di come faccio di solito, decido di non affidarmi al menù degustazione ma di scegliere alcuni piatti a la carte.
Cominciamo con l’amuse bouche, di fatto una presentazione dello chef: una crema di zucca e una crema di mandorle, una cozza servita con terra di ceci, cedro candito e ostrica con granella gelata di lamponi.
L’antipasto vero e proprio, invece, consiste in gamberi “viola” di Sanremo crudi con crema di sedano rapa, mandorle di Toritto e piattoni al sale di Mothia. Non male.
Decido di pasteggiare con un calice di Barbaresco Riserva di Bruno Rocca del 2009: di un bel colore rosso, esprime al naso note di frutta rossa matura e di spezie. Al palato appare caldo, pieno, armonico e molto lungo.
Passiamo al “primo”: risotto Carnaroli Gran Riserva con triglie marinate in succo di agrumi, zafferano sardo, origano e capperi di Pantelleria. Parto col dire che, intanto, ho apprezzato moltissimo il fatto che questo fosse un piatto “per due” e che mi sia stata fatta la cortesia di assaggiarlo anche se al tavolo ero da solo. Mi è piaciuto meno il fatto che il riso, per quanto buono, sia arrivato freddo. E soprattutto non ho capito l’utilizzo dello zafferano sardo (ma non siamo a Milano?) e la presenza della triglia lasciata intera: fa davvero una cattiva impressione. Nel complesso, comunque, il piatto è buono, per quanto i capperi non si avvertano molto.
Chiudiamo con il Piccione di Miroglio o meglio: il piccione in tre fasi. E’ più forte di me, lo sapete. Se trovo il piccione in carta non posso fare a meno di assaggiarlo. La prima fase, comunque, consiste in degli agnolotti costituiti di una sfoglia molto sottile, serviti nel ristretto del piccione. Poi proseguiamo con il petto con pralinato di porcini essiccati e nocciole. Questo almeno era quanto descritto sul menù: al tavolo, in effetti, mi è arrivato un altro piatto. Il petto del piccione non aveva accanto le nocciole ma una senape pralinata, fichi marinati con aceto di lamponi, l’indivia, una patata e il fondo di cottura del piccione, ristretto moltissimo e caramellato. La terza fase, invece, presenta le cosce del piccione accompagnate da una carota di Polignano a mare, farcite con il loro fegatino e cotte confit. Che dire? Mi è piaciuto tantissimo: un piccione di livello.
Visto che nessun dolce del menù incontra il mio desiderio, mi rifugio nella piccola pasticceria: macaron, cioccolatini, biscottini. Tutto nella media. A differenza del conto, abbastanza importante, ma probabilmente giusto per un ristorante con questa storia.
Passiamo alle considerazioni finali.
Ci ha impressionato Il luogo di Aimo e Nadia? Direi di no.
La sala? Non moltissimo.
E il menù? No. Il fatto è che immaginavo un po’ di lavorazione in più: i gamberi sono una materia prima importante ma serviti così, perdono un po’ a mio avviso. Discorso simile per il risotto, tra l’altro un’istituzione a Milano. Voto “dieci”, invece, per il piccione: tra i migliori assaggiati durante il mio road trip.
Allora, che tipo di valutazione possiamo dare a Il luogo di Aimo e Nadia? Penso che tre barbe e mezzo possano andare.