Francesco Dibenedetto: cucina contemporanea, vanto di Londra, ha un interprete di eccezione, che ha portato l’Italia nel Regno Unito
Le origini pugliesi di Francesco Dibenedetto sono ben presenti nel menù del Bibendum, due stelle Michelin.
Orgogliosamente italiano, con idee chiare ed una visione ben precisa del cibo e del ruolo dello chef. Francesco Dibenedetto, è il giovane chef pugliese oggi head chef al ristorante Bibendum di Claude Bosi a Londra, dove in soli quattro mesi ha confermato le due stelle Michelin.
Nato a Barletta, Dibenedetto ha fatto una prestigiosa carriera internazionale, lasciando la terra d’origine 20 anni fa, e oggi vive appunto nel Regno Unito, a Londra.
Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con chef Dibenedetto proprio sul ruolo dello chef oggi, e soprattutto cosa vuol dire essere uno chef italiano a Londra.
“Essere uno chef italiano è un compito molto importante – ha esordito Francesco – vuol dire riuscire a trasmettere la nostra cultura, il cibo, la dieta mediterranea. Lo chef italiano deve valorizzare gli elementi che rendono unica la cucina italiana: la semplicità degli ingredienti, il prodotto crudo, le verdure. E questa valorizzazione deve passare non attraverso piatti super elaborati ma in preparazioni che riescano a far emergere il prodotto e la sua stagionalità. In questo vedo la cucina italiana molto vicina a quella giapponese, che si basa su una cottura semplice che miri a valorizzare appunto gli ingredienti. Un amico da cui ero a cena, un giorno mi ha detto che ci sono due parole al mondo che ti danno il senso di ricchezza: Champagne e Italia. La parola “Italia” dà immediatamente il senso della ricchezza di un paese, e non parlo ovviamente di ricchezza economica, ma di ricchezza naturale, di biodiversità, di cultura e tradizioni. Ecco il mio sogno è quello di valorizzare a livello globale la nostra nazione, la ricchezza della biodiversità, della cultura. Dobbiamo essere più consapevoli del posto in cui viviamo, delle nostre ricchezze e della nostra cultura, evitando di polemizzare in continuazione. Quello che ci offre la nostra terra nessuno lo ha. Questo dobbiamo far capire ai ragazzi di oggi, devono riuscire a capire la propria terra”.
E tu quanta Puglia metti nei piatti?
“Cerco sempre di inserire qualche ispirazione che proviene dalla mia terra, mi viene in maniera automatica, senza che ci pensi troppo. Con il proprietario del ristorante (Claude Bosi ndr) all’inizio c’è stato uno scontro di vedute, io consideravo il ristorante quasi come un flagship della cucina francese, mentre volevo poter dare la mia impronta italiana. Con gli anni abbiamo iniziato a conoscerci, ad apprezzarci e a fondere le nostre culture. Ad esempio, io ho portato la cultura del mare e delle verdure (materie non troppe cotte o elaborate, per dare freschezza). Sono così riuscito a dare la mia impronta al menu. Come, ad esempio, in quello che considero il mio signature dish, creato due anni fa: la capra farcita con cannolicchi scozzesi, salsa di bietola di mare e patate cotte nella cenere. Come vedi un mix delle due culture (la parte francese e la parte italiana). Secondo me, infatti, il cibo riflette la persona, la sua identità e la sua cultura. Il cibo non è altro che lo specchio della nostra identità, della nostra personalità. Quando un cliente sceglie un ristorante, è perché vuole scoprire la personalità e la cultura dello chef. La cucina oggi è diventata più che mai scoperta di tradizioni, di culture”.
Quale sarà quindi il futuro del fine dining?
“L’alta cucina – continua lo chef – deve essere portatrice di un messaggio di cultura, deve trasmettere al cliente l’essenza del piatto, non il lavoro tecnico che lo chef ci mette, la ricerca dell’effetto wow, ma il prodotto usato, la sua origine, il territorio da cui proviene, le persone che lo hanno prodotto, la cultura di cui è un importante testimone. Il fine dining è il conduttore del messaggio di chi lavora (chi coltiva, chi pesca, lo chef, ecc). È importante far passare il messaggio di chi lavora dietro ad ogni singolo ingrediente di un piatto, della sua identità, trasmettendo la cultura del prodotto. Io vado a mangiare in quel ristorante perché voglio conoscere la cucina, l’identità e la cultura di quello chef”.
Anche in Inghilterra state riscontrando i problemi con il personale che in tanti lamentano in Italia?
“Si, anche qui abbiamo grossi problemi a trovare personale qualificato, soprattutto dopo la Brexit. A mio avviso è importante oggi far capire ai ragazzi cosa significa essere cuoco, e perché si sceglie di diventare cuoco. Quella “chiamata interiore” come mi piace denominarla. E per far sì che ogni ragazzo riesca a tirar fuori questa ispirazione, noi chef abbiamo l’obbligo di fare più formazione, non solo tecnica sul tipo di taglio, cottura ecc, ma anche formazione sugli ingredienti, sulla loro origine, su cosa significa sceglierne uno al posto di un altro. Dobbiamo far capire ai ragazzi che il cibo è specchio della loro identità, e nel cibo esprimono sé stessi, la propria personalità e i propri valori. Il cibo è cultura”