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A saperlo, anche con un leggerissimo anticipo, li avrei contattati per il numero di Aprile di “So Wine So Food”. Quello che abbiamo dedicato ai VIP. Perché nessuno più dei fratelli Alajmo, Massimiliano e Raffaele, rientra in questa categoria. Almeno seguendo il loro pensiero e i loro comportamenti. Si sentono talmente tanto importanti e influenti nel campo dell’enogastronomia italiana e europea, da non volersi far fotografare con il nostro magazine. Questione di par condicio dicono loro: non vorrebbero fare torto a nessuno. A nessun’altra realtà editoriale. Li capisco: Daniele De Rossi, uno che ad appena 23 anni si è laureato Campione del Mondo in Germania, non ha battuto ciglio quando glielo abbiamo chiesto. Deve essere molto meno importante di loro…

Lo shock è totale. Passare dalle spiagge di San Sebastian all’anonimato di Rubano, è roba da farti venire una frustrazione dell’Io da rendere quasi indispensabile la resurrezione di Sigmund Freud.

Questa piccola città situata nel nord est italiano, a una cinquantina di chilometri da Padova, ha come unico pregio l’ospitare “Le Calandre”, il ristorante dei fratelli Alajmo. Una delle eccellenze enogastronomiche del nostro paese.

Il locale è diviso in tre settori: il ristorante, l’hotel e un bistrot, dove gli Alajmo vendono moltissimi oggetti, alcuni anche di alto valore. Ad esempio alcuni bicchieri da vino, che ho prontamente acquistato, ideati e soffiati addirittura dagli chef in persona in una vetreria vicino Venezia.

L’ingresso del ristorante è davvero bellissimo, tranne che per un particolare: una parete totalmente in ferro che le piogge e i venti delle zone hanno ridotto ad una lastra arrugginita. Dovrebbe essere vintage. A me fa pensare solo ad una ringhiera poco curata.

Le sale, però, rimettono tutto a posto: sono due e molto capienti. E possono ospitare una cinquantina di commensali. Le luci sono soffuse, se non addirittura buie, i tavoli tondi e non illuminati perfettamente: a volte è difficile osservare bene le pietanze. Così come fare delle foto. Anzi, a seguire le indicazioni dei fratelli Alajmo non si potrebbero nemmeno fare. C’è una richiesta espressa nell’ultima pagina dei menù. Chiaramente non la seguo.

Introdotti da una copertina dipinta a mano, i menù sono tre: classico, Max o Raf. E’ possibile, comunque, crearne uno personale, componibile, da più piatti. Scelgo il primo e mi rilasso nell’osservare il tavolo. Al centro non c’è il classico piattino per il pane, ma un carinissimo tovagliolo ripiegato con dentro dei crackers. In più, poco distante, è poggiato un gomitolo. Ogni tavolo ne ha uno di un colore diverso: probabilmente a ricordare le origini dell’economia tessile del luogo in cui ci troviamo.

I camerieri sono parecchi e molto simpatici. Tanto simpatici. Forse troppo simpatici. Almeno per un ristorante tre stelle Michelin. Ridono, scherzano, fanno battute: un atteggiamento un po’ fuori luogo per un tempio della ristorazione. Non mi piace nemmeno il modo in cui servono l’acqua: ne hanno un solo tipo e la scaraffano direttamente al tavolo. Un errore. Un atteggiamento davvero di poca classe.

Il servizio, però, è rimesso subito in piedi dai sommelier: ce ne sono due in sala. E’ possibile riconoscerli da un grembiule di cuoio, differente rispetto agli altri. Mi propongono una degustazione di vini, undici per la precisione, un bicchiere per ogni piatto. A testimonianza di una cantina pazzesca, ne assaggio tanti, particolari e di ottima fattura: chardonnay, pinot grigio, valpolicella classico.

L’amuse bouche consiste in tre piccole tartine molto elaborate, tra le quali la più buona è il gelato con ventresca di tonno.

Tra i piatti quello che maggiormente incontra il mio gusto è l’osso alle erbe: un osso tagliato in sezione a metà, con midollo rosso vivo e erbette. Molto simile a quello di Ducasse, lo trovo bello e gustoso, sebbene un po’ salato. Ottimo anche il risotto allo zafferano con polvere di liquirizia e incenso: amo tutti e tre gli ingredienti, pensate cosa voglia dire per me incontrarli insieme, in un’unica portata! Per il resto, le altre mi sembrano tutte nella media. Da bocciare il cannellone di ricotta all’amatriciana: troppo semplice. Interessante, invece, il dolce: Fede”, una furbata ben riuscita, con il piatto che si trova… sotto il piatto!

Nonostante la bella serata e la qualità delle portate, alla fine del pasto la delusione è totale. Gli chef, scostanti e anche vagamente presuntuosi, vengono al tavolo ma non ci invitano ad entrare in cucina per vederla o parlare con la brigata. Un atteggiamento davvero deprecabile, frustrante per un cliente che non solo ha mangiato nel loro ristorante, ma ha anche acquistato diverse cose nel bistrot.

Voto finale: 3 barbe.



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