“La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo. A volte in una partita la palla colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po’ di fortuna va oltre e allora si vince. Oppure no e allora si perde”
Match Point (Woody Allen, 2005)
Sono il protagonista di uno di quei momenti.
La palla ha appena toccato il nastro e volteggia beffarda a mezza altezza, indecisa se cadere nel mio territorio o in quello dell’avversario. La visualizzo idealmente nel piatto che mi hanno servito qualche minuto fa e che ho appena iniziato ad assaggiare. Nel punto esatto in cui si è materializzato un elemento che con i tortellini d’anatra sembra davvero non avere nulla a che fare. Un corpo estraneo. Un pelo. Almeno al primo sguardo. Sbuffo, provando un’irritante sensazione di deja vu che mi stizzisce. Allontano il piatto e contemporaneamente alzo il braccio sinistro per attirare l’attenzione del maitre.
La palla continua a roteare, come cristallizzata. Si avviluppa attorno al suo baricentro anche quando con vistoso imbarazzo un cameriere viene a dirmi che lo chef si scusa e che mi attende in cucina.
Le sliding doors.
Quanto mi piacciono. Mi trasmettono una sensazione di rischio alla quale riesco a rinunciare con difficoltà. Deve essere questo il brivido che tanto piace ai giocatori. Nel senso dostojevskiano del termine, chiaramente.
Quante sliding doors abbiamo incontrato nelle nostre vite? E come sarebbero cambiate le nostre esistenze se avessimo scelto un’entrata invece che un’altra? Siamo sempre in grado di identificarle? Io questa capacità me la riconosco. Ecco perché mi alzo in piedi tranquillo. All’orizzonte mi pare di scorgere uno di quei momenti di svolta che possono indirizzare nel breve e nel lungo periodo cena e giudizio sul ristorante.
Lascio il tavolo, tenendomi alle spalle quella dannata sfera gialla, indecisa sul suo e quindi sul mio destino. Entro in cucina. E la serata prende tutta un’altra piega.
Sono rientrato in Italia. A Roma per la precisione. Mi piacerebbe potervi dire che l’ho fatto per lavoro. Che nella Capitale era prevista, proprio tra fine maggio e inizio giugno, una delle tappe del mio roadshow. Non è così. Sono rientrato per la gara di addio di Francesco Totti. Quando l’ho comunicato a Stefano Cocco, il mio editore, la sua reazione mi ha divertito. Prima è esploso in una risata, poi, facendosi estremamente serio, ha chiosato: “Ci vediamo all’Olimpico. Piangeremo un po’ insieme facendoci forza”. Non vi annoierò raccontandovi cosa il Capitano della Roma ha rappresentato per me e quale trauma è stato vederlo togliere per l’ultima volta quella maglia.
Vi basti sapere che quando Heinz Beck mi accoglie sulla terrazza de La Pergola con uno strepitoso aperitivo alcolico, tutto sembra improvvisamente migliorare. Il sorriso e i racconti dello chef mi respirano via un po’ di malinconia per l’addio di Totti (che tra l’altro è in una di queste sale a festeggiare con parenti e amici proprio la sua ultima partita con la Roma). La tristezza va ancora più via quando insieme al sommelier, il cuoco tedesco mi porta con sé in cantina, raccontandomi di come, quando cominciò a frequentare le cucine, il concetto di cantina non esistesse proprio. L’usanza non era quella di accumulare il vino in una stanza ma di acquistare quello necessario giorno per giorno.
Se la terrazza, che ha come scenario il meraviglioso skyline romano, appare pazzesca, l’interno de La Pergola, forse, è ancora più bello. Lo staff è preparato, di lusso ma anche cordiale. Si respira una certa simpatia nell’aria, di una tonalità giusta, mai eccessiva. Particolare che, come sapete, mi piace particolarmente.
Non appena mi siedo al tavolo la malinconoia (per citare Masini…) post Roma-Genoa che sembrava essere diventata una fedele compagna di viaggio, quasi più della rivista So Wine So Food, mi abbandona piano piano. Mi dedico allo studio del menù con l’anima alleggerita. Si compone di nove portate.
La selezione dei vini è strepitosa. La lista prevede un Rebenhof Riesling Spatlese Trocken del 2012, un Mikulsky Meursault Poruzots del 2013, un Lucien Le Moine Inopia del 2014 e un Caravaglio Malvasia delle Lipari del 2015. Di gran lunga la migliore selezione di vini del mio viaggio.
La carta delle acque non è da meno: meravigliosa, presenta una grande varietà da tutto il mondo. Mi colpisce anche il caffè: il kopi luwak, bevanda prodotta principalmente nelle isole di Sumatra, Giava, Bali e Sulawesi nell’arcipelago indonesiano. Viene ricavato da bacche ingerite, parzialmente digerite e defecate dallo zibetto comune delle palme!
La cena, invece, si apre con il Tonno con pomodoro nelle sue declinazioni: mi incuriosisce la base del piatto. E’ una spugna rettangolare sulla quale è adagiato il tonno: sembra pane, in realtà è succo di pomodoro disidratato e poi lavorato. Chiaramente il pomodoro è un protagonista importante della pietanza: lo si trova a pezzettini, fatto a salsa e in diverse altre varianti. Il piatto è interessante così come il gusto.
Ottimi anche gli Asparagi bianchi al pesto di alghe con calamaretti e soprattutto gli stranoti Fiori di zucca in pastella su fondo di crostacei e zafferano con caviale. Questa è una delle invenzioni più conosciute dello chef tedesco: a stupire è il gusto dello zafferano che fornisce al piatto una marcia in più. I sapori che contiene sono molti e tutti già conosciuti, ma quando si incontrano la loro combinazione rende il fiore di zucca di Heinz Beck qualcosa da provare.
Arriviamo ai fatidici Tortellini d’anatra con infuso all’ago di pino e polvere di funghi porcini. Il piatto nel quale trovo un pelo e che mi offre una via preferenziale per entrare in cucina. Heinz Beck dopo essersi scusato, cercando di giustificarsi nel fatto che il pelo poteva benissimo essere un pezzo di fungo disidratato, mi offre un bicchiere di champagne e comincia a cucinare per me. Mi rifà da capo il piatto. Sono in imbarazzo: mi sento a disagio all’interno di quelle mura, attorniato da una brigata composta da una quindicina di membri, ma rimango totalmente a bocca aperta. Sia per il suo modo di lavorare dello chef (sembra voli sui fornelli) sia per l’attenzione che mi riserva. Heinz Beck appare attento a ogni particolare: assaggia ogni piatto, ogni condimento e ogni pietanza. Ha un palato sopraffino capace di capire quale ingrediente manca ad ogni cibo gli viene sottoposto dai suoi collaboratori. Soprattutto con pochi gesti riesce a trasformare un grave incidente di percorso in un punto a suo favore, cambiando totalmente serata e giudizio sul ristorante.
Le famose slinding doors…
Torno al tavolo più che soddisfatto, ma Beck decide di stupirmi ancora. Mi fa servire un piatto fuori menù: una torre con all’interno dei sassi bollenti e una grata di acciaio dove viene cotto il pesce San Pietro insieme ad una foglia di mandarino. Il gusto, molto giapponese, mi manda letteralmente in estati. Altri “più” sulla pagella dello chef.
Chiudo con la Spigola all’acqua pazza, una rivisitazione di un piatto molto comune e il Lombo di agnello al finocchietto in crosta di cereali con perle di caprino. La carne di agnello è cotta alla perfezione e i “sassolini” di formaggio, anche questi disidratati, danno un tocco da capogiro al piatto.
Note positiva anche per i dolci, specialmente per la piccola pasticceria: un comò, ispirato ad un’opera di Salvador Dalì, che contiene, in ogni cassetto, squisitezze di ogni genere.
Lascio La Pergola soddisfatto: la tristezza per l’addio di Totti torna a farsi sentire, ma sembra ormai essersi incastrata in una piega dell’anima. Quella che si è formata guardando lavorare Heinz Beck nel momento, forse, più difficile della sua serata. Gli errori si possono commettere, l’importante è provare a rimediare agli stessi. Il suo atteggiamento mi è piaciuto davvero molto.
Bravo Heinz!
Voto finale: quattro barbe e mezza.