La sua cucina rispetta la natura ed è senza sprechi, in linea con le nuove tendenze
Giancarlo Morelli, da enfant prodige a chef pluripremiato e imprenditore accorto: una stella Michelin, sei ristoranti, una lunga lista di riconoscimenti nell’alta cucina mondiale. Nato nella campagna bergamasca da una famiglia di fattori con solide radici nell’etica del lavoro, Morelli si distingue subito per il carattere volitivo e la passione per la cucina, che apprende per osmosi giovanissimo imitando i gesti di sua madre. Si diploma come miglior alunno all’Alberghiero di San Pellegrino Terme e in quel periodo lavora già per mantenersi.
Appena diciottenne si imbarca come junior chef sui transatlantici americani. Viaggia, lavora, impara. E al suo ritorno in Europa perfeziona la sua cucina seguendo la rigida scuola francese, con maestri come Bernard Loiseau e Alain Ducasse. Grazie alla sua intraprendente visione, alla sua serietà, appena ventiquattrenne diventa gestore del primo circolo di golf d’Italia, a Monticello. Forte di molti riconoscimenti, decide di aprire nel 1993 a Seregno, in Brianza il suo primo ristorante. Lo chiama Pomiroeu – pometo – in omaggio alla mela, frutto sincero e inizio di “tutto”.
Grazie alla sua cucina elegante e schietta, dove convergono tradizione, ricerca e convivialità, viene insignito nel 2009 della stella Michelin. La carriera di Chef si somma a quella di imprenditore, e Morelli inaugura una succursale del Pomiroeu a Marrakech e il Pomiroeu Phi Beach, in Costa Smeralda. Nel 2017 apre altri due ristoranti: il Bulk mixology & food bar e il Morelli, cucina gourmand con tanto di chef’s table, ospitati nel 5 stelle di lusso Hotel VIU Milan a Milano. Ammiratore della cucina peruviana, è uno dei primi chef europei a importare nelle sue ricette metodologie e sapori del Perù.
Sempre sostenitore di una cucina senza sprechi e rispettosa della natura, Chef Morelli fa parte del board di CARE’s Etichal Chef days, manifestazione di alimentazione sostenibile.
Con lo chef si è andati ad analizzare la situazione legata alla ripresa post-pandemica, in un settore – come quello della ristorazione – tra i più colpiti dalla pandemia.
“La ripresa del lavoro, fortunatamente, ha avuto inizio con la campagna vaccinale. Da quel momento in poi c’è stato qualcosa che mi ha fatto capire che si stava andando nella direzione giusta.
Non mi sono mai lamentato delle chiusure e delle sospensioni delle attività, perché sapevo che, prima o poi, ci sarebbe stata una ripresa di slancio anche nel nostro settore. Siamo sempre stati vicini sia ai nostri clienti sia ai nostri dipendenti e collaboratori. Questa attenzione a loro dedicata sta ripagando in questa fase di ripresa.
Parlare di ripresa, però, non significa stravolgere totalmente il nostro modo di lavorare. Fare questo sarebbe poco lungimirante. Per vivere a lungo in questo settore bisogna lavorare bene, essere seri e coltivare i rapporti.
È logico che oggi, presi dall’entusiasmo, ci sono tantissime novità in giro per l’Italia – aperture, format, situazioni – e questo dà grande incentivo per tutti a migliorarsi sempre”.
Un cambiamento che non presuppone lo stravolgimento. Questo filone di pensiero lo si ritrova anche nelle scelte dei menù, in cui lo chef cerca sempre di mettere al centro la qualità, i clienti e la necessità di riportarli al centro del discorso.
“Per quanto riguarda i menù, dal mio punto di vista, una battuta d’arresto come quella che abbiamo vissuto non porta come conseguenza principale uno stravolgimento della carta che si va a proporre, del modo di lavorare e di concepire la ristorazione. Sicuramente un modo di lavorare un po’ più concentrato su quelli che sono le esigenze di una cucina lineare, vera, che non nasconda nulla.
La ristorazione ha bisogno di mettersi sempre più a disposizione del cliente e si vuole parlare di futuro in una prospettiva lungimirante.
Il cliente è la nostra unica risorsa. Senza di loro non possiamo fare nulla. Di conseguenza, noi ristoratori dobbiamo recuperare quella disponibilità a metterci al servizio del cliente. Vedo infatti una tendenza sempre più spiccata a creare dei percorsi obbligatori all’interno dei ristoranti. Invece credo che l’esperienza di ristorazione debba essere un momento di svago, di pensiero libero, di fruizione di un servizio da godere appieno, secondo le proprie esigenze.
In tutti i miei locali ciò che non cambierò mai sono i nostri signature dish, che sono sempre più richiesti dai nostri clienti. Certi piatti iconici non vanno mai abbandonati, perché danno DNA e personalità riconoscibile alla squadra di lavoro. Accanto a questi punti fermi è logico andare sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo che possa entrare nel nostro mondo.
Ma vedo allo stesso tempo che la gente si lega tanto a dei ricordi e continua a chiederci i nostri piatti caratteristici. Anche quando un cliente non prende quel determinato piatto – perché magari l’ha già assaggiato parecchie volte – cerca sul nostro menù se è ancora presente.
Se ne dovessi indicare uno tra tutti, citerei il nostro risotto mantecato con una ricotta leggermente affumicata, con tartare di gambero rosso, colatura di alici e tartufo nero. È uno dei piatti che, dal mare alla montagna, ci contraddistingue. Si tratta di un piatto richiestissimo anche all’estero”.
Con l’avvicinarsi delle festività, Giancarlo Morelli ha speso delle parole sulla sua concezione di menù delle festività, privilegiando il sapore di casa, a partire dal quale poter sperimentare delle proposte in chiave contemporanea.
“Per quanto riguarda le festività, penso che queste ricorrenze, che fanno parte della nostra storia e della nostra cultura, debbano proporre quei piatti che riescono a generare i ricordi della tradizione. Tutto questo viene sicuramente riportato a una rivisitazione contemporanea, ma il punto fondamentale è quello di dare un profumo di festa al menù, che viene dato dai piatti dei ricordi”.
Da sempre sostenitore di una cucina senza sprechi e rispettosa della natura – infatti fa parte del board di CARE’s Etichal Chef days, manifestazione di alimentazione sostenibile – chef Morelli è intervenuto anche sul tema della sostenibilità all’interno del mondo della ristorazione.
“Chi mi conosce sa perfettamente quali sono state le mie battaglie. Si sente tanto parlare di svolta green. Io parlo di rispetto: della terra, dell’uomo, del cliente, di noi stessi e della vita. È naturale che oggi si cavalca l’onda di questa tematica.
La grande riflessione da fare, secondo me, è chiedersi che cosa si faceva prima. Così facendo è facile distinguere chi parla sul serio e ha a cuore queste dinamiche da chi cavalca l’onda di una moda.
Nessuno è ultimo depositario della verità. Ma indagare sulla verità di quello che ci viene raccontato è un buon atteggiamento. Così facendo la sensibilizzazione su questo tema diventa più efficace, e tutti sono portati a contribuire per una parte in più di quanto non stiano già facendo.
Ad esempio: quanti hanno smesso di usare la plastica in cucina? Quanti non usano più, o hanno diminuito sensibilmente le cotture sottovuoto? Quanti hanno deciso di non fare più le lunghe cotture a bassa temperatura? Questi, ad esempio, sono due pratiche che fanno circolare plastica all’interno del nostro settore. È inutile parlare di prodotti bio, se poi in cucina si continua ad abusare di plastica.
Il nostro mondo purtroppo segue pedissequamente delle mode – a partire dagli anni ’70 e ’80 con la moda dei gamberetti in scatola, della rucola e dei carpacci – e questo modus operandi porta inevitabilmente a una saturazione delle risorse e una devastazione del pianeta.
Oggi succede che si espiantano gli ulivi per piantare i noccioleti. Se vogliamo essere etici, bisogna essere informati e consapevoli; se vedo una nocciola dalla cui provenienza sono stati estirpati centinaia di ettari di ulivi, allora non devo comprarla. Dobbiamo partire da questi comportamenti”.