E se mi abbonassi anche qui? In fondo dopo la passione per la Roma e quella per il Paris Saint Germain, mi manca una squadra del nord d’Europa. E il Copenaghen mi pare perfetto. Ci devo pensare: anche perché il calcio, per me, rappresenta un amore grande quasi quanto quello per la cucina.
Faccio queste riflessioni dal tavolo che mi è stato riservato al Geranium. Unico tre stelle Michelin danese (le ha conquistate in rapida successione: nel 2012, nel 2013 e nel 2016) il ristorante di Rasmus Kofoed, infatti, si trova al dodicesimo piano del Fælledparken, lo stadio cittadino. Il motivo me lo spiega il ragazzo che mi seguirà in tutto il mio pasto: Mattia. E’ l’unico punto in città dal quale si può ammirare ogni particolare dello skyline. Ha ragione: dalla sala, interamente a vetri, c’è una vista pazzesca. Ma io quando scorgo quel rettangolo verde non riesco a pensare ad altro. Un po’ come quando sul tavolo mi vengono adagiati i piatti che dovrò degustare…
Come ho già detto mi trovo a in Danimarca, a Copenaghen, ospite, per amor della precisione, di un complesso poco fuori città. La capitale danese è meravigliosa e al suo interno si respira un orgoglio nazionale che lascia a bocca aperta. Malmoe e quindi la Svezia sono distanti solo 47 km, percorribili attraverso un ponte (chi ha detto Stretto di Messina?), eppure gli abitanti di Copenaghen si sentono e si vantano di essere danesi.
Il mio tavolo è sull’ala sinistra della sala. A pochi metri da me spicca una parte all’aperto della cucina: viene utilizzata per completare i piatti un istante prima di servirli. Vedo lavorare lo chef e la sua brigata, ne ammiro la precisione e l’accortezza. Studio anche la cappa d’aspirazione che ne sovrasta le teste: impedisce a ogni tipo di odore di vagare tra i commensali. Un particolare da ristorante tre stelle Michelin.
C’è un solo menù, quello stagionale: lo spring universe menù. Si compone di dieci piatti, più sei appetizers. Quello che maggiormente colpisce di Geranium è il contrasto tra il lusso tipico di un ristorante stellato e la semplicità delle materie prime. Per la sua cucina, infatti, Kofoed utilizza tantissimi vegetali e tantissime piante del posto che, costrette a resistere al freddo, trattengono acqua e aromi minerali che al contatto col palato sprigionano gusti da capogiro.
Tra gli appetizers quelli che maggiormente attirano la mia attenzione sono due: intanto il tomato water, Ham Fat e Aromatics Herbs. Si tratta di acqua di pomodoro, servita con grasso di prosciutto e erbe aromatiche. Le tre pietanze vengono portate al tavolo separate e devono essere unite prima di mangiarle. Il sapore è davvero intenso e il risultato interessante.
Buonissimo anche Dillstone Horseradish e Frozen Juice From Pickled Dill: una ciotola di pietre fredde, sulle quali sono adagiate delle olive fatte di succo di rafano. A parte vengono serviti sottaceti ghiacciati e una crema di yogurt.
Per quanto riguarda le portate principali, trovo molto gustose le scaloppine di nasello all’aroma di ginepro e burro marrone. Trovo il piatto bilanciato: al primo assaggio la sapidità può sembrare anche eccessiva, ma il finale, con il ginepro, pulisce la bocca e lascia un buon sapore.
Fantastico anche il Salted Hake, Parsley Stems e Finnish Caviar in Buttermik: un nasello salato, con gambi di prezzemolo, una clorofilla di gambi di prezzemolo e caviale finnico immerso nel burro. Il piatto viene ultimato con la pelle del nasello fritto croccante: è l’unico modo, mi ha spiegato lo chef, di dare croccantezza al piatto senza farlo andare “troppo su” di sale.
Interessanti anche dei ravioli di barbabietola con dento ribes nero e a parte, una salsa di yogurt, uovo e sesamo e i dolci, in particolare quello che viene servito per ultimo. Si tratta di un teschio, poggiato su di un piatto meraviglioso, fatto di cioccolata e liquirizia. Utile per digerire e lasciare la bocca pulita.
Per quanto riguarda i vini, sempre su consiglio di Mattia, scelgo uno chardonnay sudafricano Hamilton Russel. Strutturato, intenso, all’aroma di pera, mostra forte personalità e un po’ più di corpo rispetto agli chardonnay tradizionali.
Ne parlo con lo chef mentre mi fa visitare la sua cantina: un corridoio con tre differenti gradi di raffreddamento. Vedo tanti vini francesi, specialmente della Borgogna, diversi italiani e qualche tedesco.
Chiudo il classico tour del ristorante con la cucina e un’amabile chiacchierata con Kofoed: mi spiega che le confetture e i salumi, li producono in maniera artigianale, sfruttando una cella di stagionamento costruita appositamente. Lo stesso particolare che avevo notato: la semplicità dei metodi di una volta e delle materie prime, per dare vita a piatti tristellati.
Che spettacolo!
Voto finale: quatro barbe e mezzo.