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Vorrei capire se è un difetto.

Oppure semplicemente “carattere” (cit.).

Senza dubbio è frustrante: strozza le emozioni, impedisce di vivere a pieno tutte le meraviglie che la vita sa regalare.

Parlo di questa mia brutta abitudine, non so quanto condivisa, che mi spinge a concentrarmi sui difetti. In qualsiasi ambito, sia chiaro: parlo della piccola piega sulla giacca che rende vana la qualità del tessuto, il taglio ricercato e l’abbinamento con il resto dell’outfit.

Parlo del piccolo vuoto narrativo del libro o del film che ti ha tenuto incollato alla poltrona per ore e che ti nega di godere completamente di una storia coinvolgente e ben raccontata.

Parlo dell’unica frase rivedibile in una conversazione con la ragazza che ti piace tanto. L’hai sognata e corteggiata per anni e dopo una serata meravigliosa, in cui saresti pronto a chiederla in sposa, non riesci a pensare ad altro che a quel congiuntivo sbagliato o a quella considerazione che proprio non ti trova d’accordo.

Frustrante, eh? Che vi dicevo…

Ve lo racconto perché non riesco a staccare gli occhi dalle pepite di zucchero che esplodono, precipitando a terra, ogni volta che una signora di mezza età addenta il suo donut. E’ a pochi metri da me. In piedi. In equilibrio solo grazie alla mano destra legata saldamente ad una barra di sostegno. E’ in un autobus. Immobile alla fermata. Ci divide un tratto di strada, il marciapiede e un finestrone gigante aderente al mio tavolo. Quello dell’Eleven Madison Park: il miglior ristorante tre stelle Michelin al mondo.

Mi sembrava giusto salutare così il 2017: chiudere un cerchio che idealmente collega Massimo Bottura e Daniel Humm. Come sapete quando a Marzo ho deciso di intraprendere questa avventura enogastronomica, con il mio editore scegliemmo di partire dall’Osteria Francescana. In quel momento in testa alla classifica dei The World’s 50 Best Restaurants. Titolo perso solo un mese dopo in favore proprio dell’Eleven Madison Park.

Ecco, se qualcuno mi chiedesse di confrontarli, direi che i due locali si contraddistinguono per una differenza unica ma fondamentale: il ristorante di Humm spicca per l’attenzione ai particolari, quello di Bottura, invece, per la cura della cucina.

Mi trovo qualche chilometro a sud di Manhattan: precisamente al numero 11 di Madison Avenue, dove all’interno di un meraviglioso palazzo d’epoca, trova spazio, in un tutta la sua magnificenza, l’Eleven Madison Park.

Il locale di Humm si sviluppa all’interno di una sala ampia e rettangolare, dotata di soffitti alti almeno dieci metri. Le finestre, enormi, che lo separano dalla strada sono strepitose: permettono alla luce di farla da padrone. Peccato per i piccoli spifferi d’aria che spesso, avvolgendoti in folate ripetute e mai richieste, rischiano di compromettere il pasto.

Uno dei difetti di cui vi parlavo in precedenza che non mi permettono di vivere serenamente questa esperienza. Un altro riguarda la capacità gestionale dello staff di Humm: malgrado fosse impossibile prenotare online, visto il sold out che annunciava il sito dell’Eleven Madison Park, quando mi accomodo al tavolo, mi accorgo che ce ne sono moltissimi vuoti. Perché? Evito di domandarlo. Anche perché vorrei esporre i miei interrogativi direttamente allo chef che, purtroppo, non è in sede: si trova a Los Angeles per l’inaugurazione di un nuovo ristorante.

Il servizio, comunque, appare efficiente: ogni tavolo ha a disposizione almeno un cameriere pronto ad esaudire, con rapidità, ogni minima richiesta. La stessa cosa non avveniva da Osteria Francescana, dove, invece, sono stato dimenticato per minuti interi.

Vogliamo parlare della mise en place? Piatti, posate e bicchieri mi sembrano ricercati ma assolutamente nella norma. Sicuramente migliori di quelli visti sui tavoli di Bottura: consumati, sbeccati, consunti. A Modena venni veramente abbandonato a me stesso: un sommelier sbrigativo e superficiale, un maitre di sala che non accompagnava la sedia al tavolo quando i clienti tornavano a mettersi seduti.

E vogliamo confrontare le location? Mi perdoneranno gli amici emiliani, ma New York è veramente un’altra cosa. E non potrebbe essere altrimenti. Ecco questo è un fattore sul quale Bottura davvero non può intervenire…

Non esiste un menù vero e proprio all’Eleven Madison Park: puoi esporre le tue preferenze, spiegare ai cameriere le tue intolleranze e le tue allergie. Poi, però, devi affidarti all’estro della cucina: in tavola arriveranno piatti (per altro prepagati) totalmente legati all’ispirazione del momento dello chef. Di buono c’è che le pietanze cambiano in base alla stagione: siamo in inverno, per cui mi aspetto di trovare ingredienti perfettamente combinati con il freddo, la neve e la meravigliosa atmosfera natalizia che solo a New York si può vivere in questo periodo.

Comincio con l’amuse bouche: due meringhe, molto simili a un macaron, tagliate a metà, ricoperte di cioccolato, con al centro una marmellata fatta con una riduzione di pesce.

Poi un brodo di capasanta, servito con due panini, burro salato, una riduzione densa e corposa, simile a gelatina, sempre di capasanta con tartufo sbriciolato.

Continuo con una bella conchiglia, inserita in un piatto pieno di ghiaccio, una capasanta cruda tagliata a striscioline, una mela marinata con un cuore di riccio di mare e zenzero.

E’ il momento del caviale: una cheesecake di storione affumicato, una base di biscotto con pezzi di storione e caviale e una salsa bianca di burro e succo di cozze. A parte, in una scatolina molto carina con lo stemma del ristorante, dei cetrioli intagliati a rosellina a fungere da contorno.

Passo al foie gras, leggermente scottato nascosto all’interno di foglie di barbabietola rossa e all’astice, ricoperto di polvere di tartufo, una riduzione di succo d’astice, una patata, con al centro una crema di funghi e altri funghi a guarnire. Questo è forse il piatto più riuscito: ottima sapidità, grande equilibrio, fornito per lo più dalla patata.

Continuiamo con la zucca, presentata al tavolo su un tagliere, cotta al forno con delle foglie di banano e della pancetta. Va accompagnata con un succo di zucca e miele.

Infine il vitello, pregiatissimo e invecchiato, cucinato con scalogno e cavoli verdi amari e l’anatra, caramellata con miele e condita con lavanda e accompagnata da una mela, al cui interno è conservato il fegato dell’anatra stessa.

Pasteggio con due diversi tipi di vino: un rosso del Ticino Castello Luigi del 2001 e un Pedro Ximenez Gran Reserva del 1987. Il primo, svizzero, scelto in onore delle origini di chef Humm, si distingue per un color rosso rubino intenso e delle note di frutta matura e spezie. Dal gusto morbido, elegante e raffinato, vanta un equilibrio che cresce con il passare degli anni.

Il secondo, invece, è uno Sherry, riconoscibile per i suoi sentori di caramello e miele, frutti rossi, fieno secco e pepe. Lo bevo per accompagnare i dessert: un Donuts, classica ciambella americana, alla mela e alla cannella.

I pretzel al burro d’arachidi e cioccolato (squisiti!) li assaggio lasciandomi coccolare da un brandy di sidro di mela, studiato proprio per l’Eleven Madison Park e servito in un bicchiere basso e largo, con un cubetto di ghiaccio fregiato dal logo del ristorante.

Dopo aver visitato i bagni, straordinariamente all’altezza della fama del locale, posso lasciarmi andare alle considerazioni finali. Ho ancora i brividi ripensando a quelli dell’Osteria Francescana: ricordate? Li paragonai a quelli di una pizzeria…

L’Eleven Madison Park merita assolutamente il podio dei The World’s 50 Best Restaurants: non sorprende per la sua creatività, né per impiattamenti o posateria, ma è ammirabile per la ricercatezza degli elementi utilizzati nelle pietanze e per come queste si leghino le une alle altre all’interno del menù che scivola via in meno di due ore.

In sintesi il ristorante di chef Daniel Humm non può essere non considerato un punto di riferimento per tutti gli amanti dell’enogastronomia.

Voto finale 4 barbe e mezzo.

 

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