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“Di respirare la stessa aria

di un secondino non mi va

perciò ho deciso di rinunciare

alla mia ora di libertà…”

 Nella mia ora di libertà – Fabrizio De André

C’è una sola cosa che amo più della cucina.

E no, non è il calcio.

Lo so: ora vi stare esibendo nel classico gesto di stizza che si realizza sbattendo con forza una mano sull’altra. “Potevo giocarmela meglio” starete pensando. E in effetti è vero. Attenzione: adoro il pallone ma non così tanto da spedirlo in testa alla mia personalissima classifica di preferenze.

Più della cucina, amo solo la libertà

Nel senso più completo del termine.

Non parlo di restrizione fisica o almeno non solo. Parlo anche della limitazione del pensiero. Delle violenze psicologiche. Del divieto di avere idee che vadano al di fuori di un terreno segnato e forzatamente invitato a seguire. Ecco perché credo che lo stalking sia il peggior crimine che un essere umano possa commettere. Dopo l’omicidio chiaramente. Così come credo che l’arte sia l’unico strumento in grado di liberare l’uomo. E la cucina, essendo una delle forme più alte di arte, rientra perfettamente in questo concetto. Ma questa è un’altra storia…

Vi faccio questo discorso perché oggi sono in carcere.

Tranquilli: non ho commesso alcun tipo di reato. Sebbene credo ci siano le basi per condannarmi per spaccio internazionale di idee.

Per essere precisi sono nel cortile di una prigione: quella dove i detenuti si trovano costretti a consumare la classica ora d’aria. Sopra la mia testa c’è un vetro: fa riflettere che solo tre secoli fa, qualcuno che si era macchiato di una colpa che al momento non saprei definire, guardava lo stesso cielo che sto guardando io ora. Stesso cielo ma pensieri differenti. E’ alienante se ci fate attenzione.

Sono ancora in Olanda. A Zwolle. Più precisamente nella sala del De Librije: il ristorante tre stelle Michelin dello chef Jonnie Boer e di sua moglie Thérèse. Dopo esserne stato per tre anni capo cuoco, nel 1992 Boer ha rilevato l’attività, spostata solo nel 2015 all’interno di un carcere femminile del 1700, perfettamente ristrutturato e ripensato per la ristorazione. In olandese, De Librije significa “libreria”: in fondo la lettura e quindi la cultura rendono liberi più di ogni altra cosa…

Oltre al ristorante vero e proprio la struttura prevede una boutique, dove la famiglia Boer vende i suoi prodotti e, al piano di sopra, un meraviglioso hotel 5 stelle con delle suite da capogiro. 

La sala, alla quale si arriva passando anche da una zona lounge in cui è possibile bere qualcosa, avrà non più di 20 tavoli. Tutti vicinissimi alle pareti: il che consente ai commensali di poter mangiare guardandosi l’un l’altro. Una bellissima esperienza.

Proprio perché si trova in questa chiostrina, che un tempo era all’aperto, come vi dicevo la sala è sovrastata da un tetto di vetro, capace di oscurarsi nei giorni di sole caldo e di sciogliere la neve, in quelli d’inverno rigido. Mi fa da cicerone la stessa signora Thérèse che mi parla proprio delle caratteristiche del luogo in cui mi trovo.

Passano pochi minuti e vengo raggiunto tavolo da un graziosa signorina. In mano ha un anello: me lo infila al dito e con ampi gesti mi invita a mangiare. La fede è fatta di ceramica e sulla sua parte esterna presenta una tartare, del foie gras e del caviale. Bisogna gustarla in un solo boccone: piatto bello, interessante e soprattutto buono.

Aspettando mi venga servito l’antipasto, mi concentro sulla carta dei vini: è molto più ampia rispetto a quella del De Leest. Sarà composta da duecento pagine, mentre quella del ristorante di Boerma non andava oltre le sessanta. Chiedo un vino autoctono: un Kus Van Thérèse, un cabernet bianco. Nato proprio da un’idea di Thérèse Boer, mostra aromi e sapori di fiori di sambuco, mela verde e asparagi. Delicato al palato, mi sembra ottimo per gli aperitivi ma si abbina bene anche con le insalate, il pesce e i frutti di mare.

Il menù, invece, si compone di 4 portate, alle quali vengono abbinati diversi vini: l’italiano Rosso dei Notri di Tua Rita (vino giovane e fresco, che può essere gustato lungo tutto il pasto), uno Schäfer-Fröhlich Riesling trocken del 2015 (un bianco molto minerale e decisamente aromatico). L’ultimo ce lo consiglia direttamente lo chef: Boer ama la Spagna e la sua cucina. E anche la penisola iberica corrisponde il suo amore. Parlo dello Ximénez-Spìnola: dolce e vellutato in bocca, con una sottile nota amara nel finale per gli anni passati a contatto con il legno, assomiglia molto al passito. Davvero gradevole.

L’amuse bouche, invece, prevede diverse portate: una cialda rigonfia fatta di succo di gamberetto e un gamberetto fritto. Poi due guanti neri congelati, con adagiati sopra un frutto della passione diviso a metà, ripieno di uova di salmone e una spuma composta da frutto della passione e album d’uovo. Si continua con una spuma di parmigiano, crocchette di diversi tipi e cialde di mais soffiato.

Ma eccoci passati al menù vero e proprio: Brown crab, chicken liver e calf’s heart (granchio con fegato di pollo e cuore di vitello), Moonfish, soured pepper e eggplant (un pesce luna servito con melanzana e peperoncino), Kamper lamb, serweed and eel (agnello insaporito con l’anguilla), Torsted white choccolate, pistachio and blue cheese (un tortino di carne con pistacchi e gorgonzola).

 Le cose davvero interessanti del De Librije, a parte i piatti squisiti, sono principalmente due: ogni portata viene servita con un succo, una cremina o una riduzione da aggiungere. Buona idea: permette al cibo di rimanere sempre caldo.

E poi gli strumenti particolari che vengono usati per servire le pietanze: ad esempio vedo un fornelletto meraviglioso per cucinare la carne e un altro fornelletto in pietra, dove i gamberetti vengono tenuti a temperatura.

Dopo aver fatto la classica visita ai bagni che trovo semplici, spartani e anche bruttarelli (tipici di un carcere…), mi dedico al dolce. Anche in questo caso, come al De Leest, è una sorpresa dello chef: un tronco di prelibatezze con una legenda scritta in modo da sapere cosa si sta mangiando.

Altri due particolari del De Librije vanno sottolineati: il fatto che siano perfettamente automatizzati (con un tablet possono comunicare alla cucina, divisa in cinque parti, tutto quello che avviene ai tavoli: dal menù, alla mancanza d’acqua, ai piatti mangiati o meno) e soprattutto l’atelier. Si tratta di una scuola di cucina, costosissima, che permette ai cuochi più giovani di imparare le basi del mestiere direttamente da chef Boer. Bellissima idea.

Lascio il locale dopo una chiacchierata con la brigata (composta da circa 29 persone), una visita proprio alla cucina (ampia ma non grandissima), alle parti del carcere lasciate intatte e alle suite dell’Hotel 5 stelle: meravigliose.

Bravi Jonnie e Thérèse, vi meritate 4 barbe piene.



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