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“Vivete di più, amico mio. Non vi auguro molta felicità, che vi verrebbe a noia; non vi auguro nemmeno la sventura, ma secondo la filosofia popolare vi ripeto semplicemente: vivete di più e fate in modo d’annoiarvi il meno possibile; questo vano augurio lo aggiungo da parte mia. Bè, addio e addio sul serio”

(I demoni – F. Dostoevskij)

Alle volte mi chiedo come, nei momenti più strani e inaspettati, alcune nostre conoscenze, nascoste in anfratti abbandonati della mente, trovino la via per tornare a galla. Collegandosi in maniera sconosciuta e incomprensibile.

Bisognerebbe farci uno studio attento e approfondito. Faccio un esempio: come è possibile che, seduto ad un tavolo di un ristorante, nel pieno centro di Hong Kong, riesca a pensare contemporaneamente a I Demoni e a Matrix.

Oltre che due produzioni appartenenti a generi completamente diversi (un’opera letteraria e un film), parliamo anche di creazioni distanti anni luce nel tempo. Per lo più prodotte da menti agli antipodi, per posto nel mondo e per anni: Fedor Dostoevskij e i fratelli Wachowski.

Misteri della psiche.

Sarà il jet lag, che ancora non sono riuscito bene ad assorbire, o la fame incombente che non vedo l’ora di saziare. Fatto sta che facendo rimbalzare gli occhi tra il menù e la strada trafficata che si trova qualche metro sotto di me, non riesco a pensare ad altro che: rosso o blu?

O meglio: pillola rossa o pillola blu?

“Pillola azzurra fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa resti nel Paese delle Meraviglie. E vedrai quanto è profonda la tana del bianconiglio”.

Nemmeno a dirlo scelgo il rosso. Ah, la curiosità: la mia più grande debolezza…

Come già detto sono ancora ad Hong Kong e sto per mangiare da Bo Innovation, il ristorante di uno dei cuochi più popolari della Cina: Alvin Leung, The Demon Chef (capito ora perché Dostoevskij batteva così forte alla porte della mia coscienza?). Innovatore della cucina cantonese, Leung si è scelto il soprannome da solo: agli inizi della sua carriera, in tanti, lodando i suoi piatti, lo incensavano dicendogli: “Sei un dio della cucina”. Allo chef cinese, nato a Londra, questa definizione sembrava troppo blasfema. Perciò, di sua iniziativa, decise di ribattezzarsi “demone”. In fondo in greco la parola daemon altro non vuol dire che “spirito giocoso”, un po’ quello che Leung cerca di fare con il cibo e le sue pietanze: divertirsi.

Bo Innovation è l’unico tristellato di Hong Kong che non sia all’interno di un albergo o di uno centro commerciale. Ha visto la luce nel 2005, quando Leung dopo essersi fatto le ossa in giro per il mondo lavorando con colleghi del calibro di Adrià, Blumenthal e Robuchon ha deciso di provare la strada solitaria. Si trova in un quartiere “popolare”: non tra i più in dell’ex colonia inglese, ma comunque con vista su una strada trafficata e ricca di negozi, visibile dalla sala del ristorante, grazie alle splendide vetrate.

La sala, introdotta da un angolo cocktail (buio e vintage ma ricco anche di drink molto raffinati), può contenere al massimo una quarantina di commensali, disposti in tre sale. Da ogni seduta è possibile guardare la cucina, angolare e tutta a vista.

Appena seduto mi vengono proposti i due menù: red o blu (ciao Matrix!). Chiaramente opto per il primo e mi preparo a scendere nell’antro del demone…

Prima di cominciare con le portate, al tavolo viene portato un contenitore ripieno di acqua profumata: non è potabile ma viene utilizzata per bagnare delle salviettine con cui lavarsi le mani. Il cameriere mi spiega che le donne di Hong Kong (che, infatti, in cinese vuol dire “porto profumato”) usano un composto simile per lavarsi. L’acqua, a contatto con i “tovagliolini” produce del fumo: una trovata bellissima, igienica e d’effetto!

Si parte con l’amuse bouche: ogni pietanza viene servita in piatti bellissimi, di antica porcellana giapponese yellow daisy, risalenti al 1960.

Cominciamo con tre tartellette, poste su una cartella (il tavolo da gioco di un famoso passatempo cinese) la prima con pelle di pollo e una salsina al cetriolo, la seconda con una crocchetta di patate e zenzero, l’ultima con un puré di patate e pistacchio.

E’ il momento di scegliere il vino: il sommelier mi consiglia una mezza bottiglia di rosso. Un Volnay 1er Cru “Santenots”: dai sottili profumi di frutti di bosco, ciliegie e fragoline, presenta anche un retrogusto speziato, capace di evocare note di tabacco, cioccolato e pellame. Intenso ma delicato, possiede la giusta freschezza e un’accesa mineralità.

Continuiamo con un rosso d’uovo marinato con zenzero: duro fuori e morbido dentro, al palato un’esplosione di sapori incredibile. L’antipasto, intanto, si conclude con un triangolino semi dolce tipico di Hong Kong, una sorta di foaccina e un nido. Servito in un piatto meraviglioso a forma di foglia, è costruito con pasta fillo e riempito da caviale, una foglia d’oro e del formaggio.

Passiamo al pesce: un sea bass, preparato come fosse sashimi, da condire con una polvere piccante fatta con il chily, da distribuire con le dita. Il wasabi viene ignorato: è giapponese.

Poi i noodles preparati con germogli di soia, addizionata con un olio ai gamberetti. Il sapore dei crostacei (portati a tavola in un cesto per farli vedere al cliente) esplode in tutta la sua magnificenza: un gusto fantastico, profondo, bello. Piatto riuscitissimo.

Procediamo, poi, con il bamboo matrix: foie gras su pane nero fatto in casa, adagiato in un cestino di bambù con una cialda di bambù fritta. La presentazione è meravigliosa, il fegato ancor di più, in più apprezzo la presenza di alcuni pezzettini di mela che stemperano il sapore del foie gras fresco. Meraviglioso.

Assaggio il Postnatal fancy: un pomodoro sbucciato e cotto per 45 minuti a bagno con l’aceto di soia dolce. Va mangiato in un sol boccone, con una granella ghiacciata di zenzero che amalgama il tutto e ti permette di bere la salsina.

Proseguiamo con il classic upgrade: merluzzo su una base di crema di mandorle, cappuccio di funghi, germogli di cipolla e piccoli pezzettini di jamon iberico per dare contrasto.

Passiamo all’aragosta, accompagnata da ricci di mare, una salsa con il succo dell’aragosta e emulsioni di maionese aromatizzata allo zenzero; una sorta di intermezzo costituito da una spuma di whisky cinese con uovo, servito in uno strano bicchiere col becco, da poter bere con un solo sorso; e infine il pollo ripieno con riso vialone: un riso italiano, molto utilizzato nell’alta ristorazione. Più del piatto, non riuscitissimo, mi colpisce il coltello con il quale dovrei tagliare il pollo: quasi da macellaio.

Chiudiamo il babà realizzato con rum cinese: la particolarità del rum sta nel fatto che viene fatto fermentare senza acqua, quindi possiede una gradazione molto più alta. Viene accompagnato da una granella di gelato alla vaniglia, delle foglie aromatizzate alla vaniglia e dei lamponi disidratati.

Prima della piccola pasticceria (una gabbietta simile a quella degli uccelli, con tre o quattro specialità cinesi), degusto un thé realizzato con otto tipi diversi di ingredienti: ad esempio noci, bacche di goji, occhi di drago, rose, giuggiole e bucce di mandarino.

Come al solito mi reco ai bagni per la mia solita visita di controllo: sono dedicati a Bruce Lee (alle pareti ci sono numerose stampe che ritraggono l’attore cinese). Li trovo ampi, belli e pulitissimi. Addirittura, fuori dalla porta, c’è una signora che ti aspetta per porgerti una salvietta profumata con la quale asciugarti le mani.

Purtroppo non riesco a parlare con lo chef: è all’estero, in uno dei suoi ristoranti a Parigi o Londra. Chiacchiero con il suo “secondo”, un ragazzo quarantenne di nome Dave, che mi spiega i motivi per i quali Leung è soprannominato l’innovatore. Il demone, infatti, è riuscito nell’impresa di trasformare la cucina cantonese, fatta solo di riso, soia e brodini varie, modificandola in qualcosa di accessibile anche al di fuori dei confini della nazione.

Vedete che ho fatto bene a scegliere la pillola rossa?

Voto finale 4 barbe.



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