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Auberge du Vieux Puits: chef Goujon è scostante ma la sua cucina è da apprezzare

 

Peccato per il vetro.

Davvero.

Chiaro, limpido, puro.

Praticamente invisibile.

La cosa mi destabilizza anche un po’: mi sembra di camminare nel cielo per quanto è pulita questa spessa lastra di niente.

Eppure il vetro c’è.

Consistente. Soprattutto presente. Stabile. Disinteressato ai miei pensieri.

Una fantastica metafora della vita se ci riflettete bene.

Noi, i nostri obiettivi e, davanti agli occhi, un impercettibile quanto invalicabile muro di nulla.

A impedirci di raggiungerli. A trasformare i nostri sforzi, il nostro sudore e il nostro sangue in ripetitive “musate”. A tramutarci in mosche impazzite, sempre più incomprese e ansiose.

Ci pensate mai che, forse, questi perimetri invisibili, ce li tiriamo su da soli? Che siamo noi stessi i muratori della nostra vita? Pronti a costruirci continui impedimenti, inventati proprio per fallire? Per ritrovarci la sera sul divano, una tazza di cioccolata calda in mano e una coperta sulle gambe a piangere su quanto siamo sfortunati? Quanto non era il momento? Quanto siamo tutte persone sbagliate arrivate al momento sbagliato? Quanto siamo piccoli e soli?

Pensieri sparsi, come al solito. Non riuscirò mai a fermare la mia mente. Come dico sempre: è l’unico strumento che riesce a viaggiare più velocemente degli aerei che mi scorrazzano in giro per il mondo.

Mi sono distratto. Ancora. Di nuovo. E proprio mentre chef Goujon ci sta mostrando la sala del suo ristorante. Precisamente siamo davanti (o sopra?) un vecchio pozzo (coperto) utilizzato dai primi abitanti di questo casale in piena montagna, per procurarsi l’acqua.

Se non ci fosse il vetro mi sarei già calato al suo interno.

Per studiarlo, valutare quanto è profondo, capire dove porta.

Peccato per il vetro, già.

Probabilmente mi sarei frugato in tasca e avrei lasciato precipitare una monetina. Senza voltarmi come si fa per la Fontana di Trevi. E senza esprimere il desiderio di tornare. Non ce ne sarebbe bisogno. Qualcosa, comunque, la vorrei chiedere lo stesso: pur non avendo monetine da immolare o spalle da mostrare. 

Mi piacerebbe tanto vivere una esperienza enogastronomica degna di nota.

Dopo essere atterrato a Tolosa e aver percorso circa 150 km di strada arrampicandomi sui fianchi dei monti Pirenei, sono arrivato nella città di Fontjoncouse. Un piccolo villaggio francese di Corbières, situato nel dipartimento di Aude.

Chef Goujon e sua moglie lo hanno scelto come location per il loro ristorante ad inizio anni ‘90. Avendo a disposizione un budget di spesa molto limitato, i due coniugi scelsero un paesino di montagna, puntando tutte le loro fiches sulla qualità della cucina. Preferita di gran lunga ad una location di alto livello.

Le tre stelle Michelin guadagnate con un lavoro di quasi trent’anni, confermano la bontà della loro decisione.

Auberge du Vieux Puits: così si chiama il ristornate di Goujon. Sorge all’interno di un casale molto antico, ristrutturato e trasformato in tempio della ristorazione e in hotel extralusso, con non più di una decina di stanze e tutte suite.

Arrivo che è praticamente già notte e vengo accolto in un dehor meraviglioso, introdotto da una bellissima vetrata e tantissime sculture in ferro. All’entrata, poi, si alternano composte e marmellate preparate direttamente dallo chef e in vendita.

La sala, meravigliosa, può ospitare non più di 50 commensali: si presenta con un stile molto retrò. Anni ’80 per capirsi ma è pulita e ben arredata. Al centro c’è un tavolo in cui il maitre o lo chef finiscono i piatti e non ci sono tovaglie. Ma tutto è davvero molto curato e profumato.

Iniziano a coccolarmi offrendomi un bicchiere di Folio Coume del Mas del 2016: un bianco francese dal colore giallo paglierino, ricco di note di pera, agrumi e anice stellato. E’ un vino molto minerale, con un finale persistente e consistente. Per niente male.

Poi, dopo avermi fatto accomodare, mi danno olio, sale e una focaccina fatta in casa, invitandomi a bere la loro acqua. Probabilmente verrà dalla stessa fonte in da cui si “riforniva” il pozzo di cui vi parlavo.

Tre i menù proposti dall’Auberge du Vieux Puits. Opto per il “Quelques pas dans la Garrigue”: letteralmente “Quello che offre la terra”.

Apriamo con l’amuse bouche: una serie di crocchette che presentano diversi ripieni come succo di tartufo, tonno e gelatina di vitello. Davvero molto carine e gustose.

Proseguiamo ancora con l’antipasto che ha come ingredienti principe l’ostrica. Servita come una tartare e accompagnata da una salsa all’acqua di mare. Con il mitile, arriva anche una perla di zucchero soffiato, che contiene al suo interno un sentore di legno. La perla va rotta, il profumo di legno respirato a pieni polmoni e infine va mangiato tutto insieme. Piatto pazzesco per idea, gusto e innovazione. Di gran lunga il miglior amuse bouche mangiato in vita mia.

Dopo aver assaggiato tre diversi tipi di burro (alle alghe, al pomodoro e alla barbabietola) al tavolo arriva il primo “vero” piatto: un uovo su una purea di champignon. Quando l’uovo viene rotto, il tuorlo, cremoso e fantastico, finisce sui funghi. Inoltre è da aggiungere una crema di tartufo e uno zabaione di funghi e ancora del tartufo a decorare. Interessante anche la tazzina che viene servita insieme a questa pietanza: contiene una tartina al tartufo e un cappuccino di brodo di funghi. Il piatto è veramente straordinario e, non a caso, è infatti quello che ha permesso a chef Goujon di conquistare la stella.

Si continua con un Duo di tonno rosso: ventresca di tonno, una tartina di tonno con verdure e tre differenti topping da aggiungere a piacimento.

Mi viene, poi, servita la Suprema di pernice: l’uccello, che ha subito una doppia cottura, è farcito con della verza fresca. Il sugo alla base, invece, è della stella pernice con l’aggiunta di due pezzi del petto appena scottati. Davvero un piatto meraviglioso.

Chiudiamo con il carrello dei formaggi (tutti prodotti da pastori del posto) e i dolci: una cheesecake con sorbetto di mirtilli, un sorbetto al limone e un succo di mirtilli contenuto in un cilindro di pasta sfoglia.

Infine i classici dolcetti: tra i più interessanti, su una base di arachidi, una sfera di cioccolato bianco e del limone al centro che si scioglie non appena la “costruzione” viene rotta.

Prima di sorseggiare una strepitosa tisana alla Verbena, visito i bagni (meravigliosi e profumati) e ammiro la cantina: viene chiamata daily, contiene cioè solo le bottiglie destinate al servizio. Ben 1600 etichette.

Purtroppo non riesco a parlare con chef Goujon: ha lasciato il ristorante molto prima che io finissi di mangiare. In realtà ho provato a parlare con il cuoco non appena entrato all’Auberge du Vieux Puits, ricevendo di contro un atteggiamento scostante e supponente.

Il comportamento di Gilles Goujon non mi è piaciuto affatto ma la sua cucina non può non essere apprezzata.

Voto finale tre barbe e mezza.

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