“Se ti dico che la città a cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla”
Italo Calvino – Le città invisibili
E infatti non smetto di cercarla.
In realtà non smetto mai di cercare. Perché credo che lo scopo del mio stesso viaggio sia uno e uno soltanto: la ricerca.
Sì, possiamo utilizzare tanti altri termini per giustificarlo o comprenderlo. La curiosità, la scoperta, la conoscenza. Ma credo che quello principe, quello embrionale, la vera scintilla che ha dato vita all’idea poi trasformata in azione del roadtrip sia proprio la voglia di ricerca.
Intanto leggo. Molto in questo periodo. Classici per lo più. Come vi ho raccontato all’inizio del mio viaggio, amo i contrasti. E pensare di andare a conoscere l’innovazione enogastronomica, portando con me nella testa e negli occhi, righe appartenenti ad altre epoche, altre società, altri modi di interpretare la vita, mi esalta. E mi apre la mente.
Mi sento un piccolo “trovatore” del basso medioevo. Carambolo da una corte all’altra in cerca di un pubblico che mi ascolti. Attenzione: il “trovatore” non c’entra nulla con la ricerca, perché questa parola viene da trobar, termine provenzale che significa “poetare”.
A dire il vero nemmeno racconto molto. Più che altro mi lascio raccontare: dai piatti e dagli chef. Anche se a volte mi lascio trasportare dalle storie anche io. Mi è successo oggi quando, dopo essere esploso in un enorme sorriso, chef Pascal Barbot mi ha detto:
“Il tuo viaggio è un’impresa ardua Uomo delle Stelle. E non ti fa male la pancia?”
Mi trovo a Parigi. Precisamente nel quartiere Trocadero. Sono in una via anonima, nella quale, a ondate, arrivano le urla di bambini di una scuola lì vicino e l’odore della Senna, distante non più di 200 metri. In lontananza la Tour Eiffel. Sarà lontana circa un km.
L’entrata dell’Astrance è minuscola e anche abbastanza nascosta. E’ annunciata da una piccola insegna che aiuta un po’ nella ricerca.
La sala che mi accoglie è davvero ridotta: ci sono 10 tavoli alla francese (con una sedia da un lato e una panca dall’altro) e un bancone angolare all’entrata con funzione di bar. Lo sormonta un piccolo soppalco, sul quale è poggiato un altro tavolino, da dove si può pranzare o cenare guardando tutti dall’alto.
Gli arredi non mi entusiasmano: sono molto anni ’80, ma per il resto tutto è pulito e curato. Il personale è gentile e sorridente: intuiscono da dove vengo e mi mandano subito un ragazzo italiano che mi seguirà per tutto il pasto.
Mi propone tre menù: l’Astrance, quello di stagione e il menù pranzo. Non esiste una lista scritta di piatti. Anche nelle stesso menù le pietanze non sono mai uguali: ogni giorno chef Barbot fa rifornimento solo di prodotti freschissimi. Nel caso non si riuscissero a rintracciare quelli giusti per cucinare i piatti previsti, ne acquista altri, sempre molto freschi, per dare vita allo stesso menù, ma con ingredienti diversi. Possiamo, dunque, dire che i menù sono a sorpresa!
Ottima anche la selezione di vini che viene abbinata a ogni portata. Qui però nasce la prima nota dolente: i bicchieri mi vengono riempiti, ma nessuno mi spiega che etichetta sto bevendo e per quale motivo si sposi così bene con il cibo servito. Un atteggiamento che mi delude.
Si comincia con un mille foglie di Champignon e foie gras, marinato in succo di uva acido. Lo assaggio, sorseggiando un vino sauternes praticamente dolce. Molto più adatto a un dessert che a un piatto normale: in verità ci sta benissimo, specialmente con il foie gras.
Procediamo con gambero del Mozambico salsa di arachidi, foglia di emerocal, con zucchero caramellato, coriandolo, mela e zenzeo. Poi merluzzo del Golfo di Biscaglia, mille foglie di cavolo e salsa tamarindo e zafferano. Continuiamo con Gallinaccio e mandorle fresche al pepe, pesche, estratto di pollo, funghi e peperoncino e piccione con ciliegie, datteri, mostarda di ciliegie e mandorle.
Ogni piatto viene servito e spiegato al momento. La mia penna viaggia sul taccuino: non voglio perdere nessun particolare, per poi riportarlo nel mio blog.
Proseguiamo con Jasmine Tarte: una crema di latte con una base di rabarbo, olio e viole e il Latte di gallina: uovo, latte e gelsomino.
Chiudiamo col dessert “indovinello”: il maitre me lo poggia sul tavolo e mi chiede di provare a individuarne gli ingredienti. Ho il palato allenato e li pesco tutti subito: vaniglia e crema di patate quelli più evidenti.
Prima di chiacchierare con lo chef, faccio la mia solita capatina in bagno: lo trovo piccolo e sporco. Con addirittura crepe di stucco lungo i muri. Davvero una pessima figura per un ristorante che produce piatti tanto gustosi.
Pascal Barbot un enfant prodige della cucina francese, mi viene incontro a braccia aperte. Si interessa al viaggio, mi lascia i suoi contatti per una nuova intervista e sorridendo mi tocca lo stomaco per vedere se tutto va bene.
Certo che va bene, specialmente dopo aver mangiato in un tempio della ristorazione simile. Soprattutto considerando la grandezza della cucina: solo 12 metri quadri, dai quali ogni giorno escono piatti strepitosi, dei quali molti appena inventati!
Peccato per quelle due o tre pecche che ne abbassano il voto finale.
Tre barbe per l’Astrance.