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La trattoria di Barbaresco, la preferita dal celebre Angelo Gaja, è un esempio perfetto di come la cucina tradizionale possa essere contemporanea

Presi come siamo dal bisogno di cercare emozioni nuove o conferme alle nostre aspettative, ci imbattiamo talvolta in situazioni nelle quali prevale la volontà di stupire piuttosto che il desiderio di esprimere, con schiettezza e sincerità, una linea di cucina chiara e coerente, onesta nelle proposte, comprensibile nei sapori, eseguita con amore. Personalismi, ipermediaticità, contaminazioni, utilizzo eccessivo di materie pseudo-innovative, proposte di menù degustazione (spesso imposte per tavoli con più di quattro commensali) dalle troppe voci, trasformano le migliori intenzioni di tanti chef (anche bravi, per carità) in esibizioni sperimentali che avrebbero la pretesa di conquistare il cliente. In realtà, però, quest’ultimo esce dal ristorante a fine pasto con la sensazione che “mancasse qualcosa”. Tutto apparentemente perfetto, amuse-bouche da favola, piatti dai cromatismi stratosferici, servizio inappuntabile ma poco o nulla di memorabile, che faccia dire: “sì, ci ritorno presto”. È dunque l’ora di mettersi alla ricerca di quel “qualcosa in più”(o forse in meno) che faccia godere e star bene, che solo certe trattorie autentiche, capaci di offrire cucina locale perfettamente eseguita, in ambienti dominati da semplicità ed empatia, sono in grado di offrire. Certo, non è facilissimo trovarle (molte, troppe trattorie sono solo ristoranti-mangiatoia) ma, battendo i territori con intelligenza, capita di imbattersi in veri e propri luoghi di buona, semplice, talvolta eccellente, cucina. È vero che la ristorazione “delle guide” (Michelin in primis) è quella che richiama il turismo internazionale, che privilegia nelle proprie scelte la visita di locali stellati con uno o più “macarons”. Spesso sono guidati da chef eccellenti e, diciamolo, sono il nostro fiore all’occhiello. Li visitiamo con frequenza e curiosità, ma anche con attento spirito critico.

Ma, parallelamente ai “moloch” del fine dining, ci sono anche altri ristoranti, di cui si parla meno ma che valgono tanto. Peraltro, si va affermando nella società un rinnovato bisogno di trovare trattorie, appunto, autentiche, capaci di esprimere aderenza non banale al proprio territorio e attenzione vera alle aspettative del cliente, offrendo piatti di tradizione anche ortodossa, ma resi contemporanei da interpretazioni attente ai gusti e alle tendenze. Qui sta la differenza, nel saper rendere attuali piatti che hanno fatto la storia delle nostre cucina regionali. Consumare un pasto alla Trattoria Antica Torre di Barbaresco è il miglior modo per comprendere questo concetto. Innanzitutto è una trattoria di famiglia, realmente “a gestione familiare”, in cui i ruoli sono perfettamente definiti e ognuno è responsabile della propria parte: Maurizio Albarello, soprannominato “Re del tajarin” (René Redzepi, lo chef danese del Noma, è un suo grande ammiratore e ha fatto passaparola in Danimarca, dove Maurizio peraltro è ben conosciuto), è un concentrato di passione e tecnica, oltre che un provetto selezionatore di materia. A lui si deve, fra l’altro, la realizzazione del piatto bandiera dell’Antica Torre, i mitici Tajarin, un piatto fine ed elegante, dove il taglio perfetto, sottilissimo della pasta nasconde una grande precisione e una cura spasmodica per i dettagli. E i Ravioli del plin burro e salvia, la Battuta di Fassona (piemontese, come è naturale), insieme al Vitello tonnato, sono esempi non scontati di come piatti tradizionali possano rivelarsi protagonisti di un’esperienza del gusto intensa ma di raro equilibrio, dove la quantità non sovrasta la qualità ma vi si allea con armonia gioiosa e spirito moderno. La sorella Stefania, l’altra cuoca, si occupa degli altri piatti in carta (essenziale, non chilometrica, capace di farsi ricordare). Penso al Coniglio al forno con contorni di verdure fresche di stagione, al Muscolo di vitello al Barbaresco con verdure, ai dolci perfetti che vengono proposti alla fine: il Bonet al forno, la Panna cotta, la Torta di nocciola (la “tonda e gentile” langarola), il Salame al cioccolato. O la Crostata, servitami al termine di una sequenza straordinaria di piatti caratterizzati da sapore, pulizia, equilibrio. Ascoltare Maurizio mentre racconta i suoi piatti è un’esperienza coinvolgente, da cui emerge la padronanza delle tecniche e una grande passione, la stessa passione che l’altra sorella Paola mette nell’accogliere i clienti, nel metterli a proprio agio, con sapiente professionalità. Insomma, il gioco di squadra funziona. I tre fratelli, coadiuvati in sala dal giovane Adriano, sono una forza della natura. Il quarto fratello, Alessandro, è invece enologo (lavora presso la cantina di Gaja, a pochi metri, sulla stessa via Torino). Tutti e quattro figli d’arte, di quel Cinto Albarello a cui si deve la fondazione dell’attività e, soprattutto la sua affermazione dagli anni Novanta in poi. Cinto, purtroppo mancato nel 2005, vive nella memoria storica del luogo e a lui si devono le prime grandi intuizioni sulla linea di cucina che l’Antica Torre ha sempre mantenuto vive. Va detto che la mia esperienza di gusto all’Antica Torre è stata resa ancor più emozionante (e di certo ha favorito la mia scelta di scriverne) dall’essere seduto al tavolo con Angelo Gaja ( e il figliolo Giovanni): una compagnia, oltre che estremamente importante, che ha reso ancor più affascinante l’esperienza gastronomica. Anche in virtù dei vini degustati: nell’ordine, Rossj-Bass 2020, Barbaresco 2018, aspersi 2018. Tre straordinari millesimi destinati a grande evoluzione.Pura emozione, ve lo possiamo garantire, perfettamente abbinata ai piatti degli Albarello, ugualmente schietti e dal fascino intramontabile.

antica torre

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