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Lo chef stellato, ora anche personaggio tv, ricorda gli inizi della sua carriera al Bonvesin de La Riva: “I Marchesi Boys sono stati motore della cucina italiana”

E’ mattina. La mattina di un giorno qualsiasi. All’interno di una settimana per niente diversa dalle altre. I locali di Milano, quelli di via Bonvesin de La Riva ribollono. Si preparano ad affrontare una nuova giornata di lavoro, ad accogliere gruppi di clienti affamati e incuriositi che non chiedono altro che di essere soddisfatti. Qualcuno bussa alla porta: è un ragazzino, un adolescente forse. Alto, altissimo. Sembra quasi intrappolato in un corpo di uomo. I lineamenti sono dolci ancora risparmiati dai segni del tempo, ma gli occhi… Il Maestro non ha dubbi: è uno sguardo che gli piace. E’ quello che gli serve. “Desidera?” chiede lo chef. L’eleganza non la perde mai, nemmeno in queste occasioni, neanche quando ha capito che quel ragazzo è il tipo giusto, soprattutto perché risponde: “Voglio cucinare”. Marchesi gli apre la porta: è l’inizio di una grande storia. Di lavoro, insegnamenti. D’amicizia. E’ l’inizio della carriera di Andrea Berton. Quasi ripetitivo raccontarla: gli esordi al Bonvesin, poi il giro del mondo, un po’ come tutti: Mossiman’s, Enoteca Pinchiorri, Ducasse, al Louis XV di Montecarlo. Il rientro in Italia, l’esperienza bistellata di Trussardi, il Berton, ora la Tv con Philippe Léveillé e Isabella Potì. Fresco di una nuova Stella Michelin per il suo ristorante Berton Al Lago, lo chef ci accoglie nel suo locale di Milano. Anche questo stellato. E dal 2014. L’atmosfera è elettrica ma non disordinata. Anzi. Tutti si muovono alla velocità della luce, sapendo esattamente come fare. E lo sguardo dello chef non li molla un secondo. Sono gli stessi occhi che mostrò a Marchesi quella mattina.

Andrea, si ricorda la prima volta in cui ha pensato da chef?

“All’età di 7-8 anni. I miei genitori amavano frequentare i ristoranti e io, invece di starmene seduto a tavola, mi mettevo davanti alla cucina per guardare cosa accadeva là dentro. Mi incuriosivano tantissimo quegli uomini vestiti di bianco con quei cappelli. C’era una confusione incredibile, questo forse mi infastidiva: non ho mai amato il disordine”

Si dice che cucinare sia come parlare una lingua: diventi chef quando inizi non solo a dialogare, ma anche a pensare in quell’idioma?

“Sicuramente. L’importante è evitare di chiudersi in sé stessi: quello che fai deve piacere al pubblico e non solo a te. E’ un passaggio che spesso manca a chi fa questo mestiere. E’ l’aspetto più importante. Chi lavora in cucina deve saper trasmettere il proprio messaggio: se non arriva, c’è qualcosa che non va”.

Come suo “piatto guida” ha scelto il brodo: un concetto filosofico, inteso come nascita della vita, oppure proprio le interessava proporre questa pietanza?

“Entrambe le cose. Il brodo è una componente importantissima: è la base di ogni cottura. Mi piaceva l’idea di trasformarlo in attore principale del piatto. Il pubblico ha accolto questa novità con sorpresa: il mio obiettivo era raggiunto, avevo creato aspettativa”.

La carriera di uno chef sembra seguire delle tappe precise: una lunga gavetta fatta di infinite peregrinazioni in tanti ristoranti e poi il ritorno a casa. Anche a discapito della location. Lei ha intrapreso un percorso diverso: da friulano ha aperto i suoi ristoranti a Milano. Perché?

“Ho sempre voluto vivere in questa città. Ho iniziato qui, nel 1989 e sono tornato per chiudere il cerchio. Milano oggi è la citta più importante d’Italia nel campo dell’enogastronomia. Oltre ad essere tra le prime in Europa. Il suo più grande pregio sono gli stimoli che trasmette: devi metterti in discussione ogni giorno, stare al passo con i tempi. Non riuscirei a lavorare o a sentirmi a mio agio, in un paese, dove le situazioni sono limitate”.

L’Italia è il paese in cui un architetto di 50 anni è un giovane architetto. Vale anche per gli chef? Lei è un giovane chef?

“Me lo auguro (ride, ndr): vorrei sempre rimanere giovane. In realtà credo sia importante essere in contatto con i giovani, i trentenni in particolare. Hanno idee nuove, sono in movimento e noi più grandi non dobbiamo perderli d’occhio. Fino a che le forze, le energie e la salute mi sosteranno, continuerò a fare quello che ho sempre fatto”.

Nel mondo della cucina si è praticamente imposto. Sono famosissimi gli episodi che raccontano di un giovane Berton, pronto a presentarsi alla corte di Marchesi o Ducasse chiedendo di cucinare. Se oggi si presentasse un ragazzo e usasse le sue stesse modalità, come lo accoglierebbe?

“Bene. Vorrebbe dire che ha idee chiare e personalità e questo per me è un punto di partenza molto positivo”.

Ci parla dei Marchesi Boys?

“Non sarò io raccontarci, lo faranno gli altri. So che in quegli anni, nella cucina del Maestro, la cucina italiana ha vissuto un bel momento. La nostra brigata è diventata motore per la cucina italiana”.

Almeno ci racconti il Marchesi che non si conosce…

“Gualtiero ti coinvolgeva nelle sue idee, nei suoi progetti. Molti dei quali sganciati dalla cucina. A fine servizio, la sera, mi invitava spesso nel suo ufficio. Passavo le ore ad ascoltarlo e assorbivo tutto: l’enogastronomia, l’arte, la cultura. A volte andavamo a casa a notte inoltrata: in tanti pensavano fosse una perdita di tempo. Io no: è stato un grande momento di formazione”.

Da Trussardi ha conquistato due stelle nell’arco di un biennio, come Marchesi. Il Ristorante Berton, invece, ha un solo macaron da anni. Che succede?

“Nulla. Lavoriamo e basta. Chiaro che la nostra idea è quella di ottenere risultati: quindi desideriamo non solo la seconda ma anche la terza stella. Se non è ancora arrivata, vuol dire che non ce la siamo meritata. E allora bisogna impegnarsi di più”.

Citiamo Mourinho: è un sogno o un’ossessione?

“Nessuno dei due. E’ un obiettivo. Il nostro lavoro consiste nel soddisfare i commensali. Chiaro che questa soddisfazione fa parte del meccanismo e la vorremmo fortemente. Ma dipende da noi, fino ad un certo punto”.

Perché ha scelto la Tv?

“Non l’ho scelta, mi ha scelto. Fa parte del nostro lavoro, oggi. Non c’è nulla di strano”.

Come è stato lavorare con Philippe Leveillè e Isabella Potì?

“Meraviglioso. Due grandissimi professionisti. Isabella non la conoscevo: ho trovato una professionista a 360°. Nonostante sia giovanissima non lascia nulla al caso, studia ogni particolare. Per questo farà grandissime cose nella sua carriera. Con Philippe, invece, avevo già avuto modo di fare conoscenza: ha confermato tutte le cose positive che pensavo su di lui”.

Qualche tempo fa ha dichiarato: “Non capisco quelli che dicono che i cuochi debbano stare solo dietro ai fornelli”. Il rischio è che l’imprenditoria tolga qualcosa alla qualità della cucina?

“No, basta sapersi organizzare. Quando ho cominciato a lavorare con Ducasse, ho scoperto che il mio mondo era quello. Lo chef deve essere imprenditore: saper delegare, gestire. Il mio successo più grande arriva quando un mio collaboratore riesce a realizzare un piatto meglio di me”.

Ci sarebbe anche la famiglia da gestire…

“Lo so bene. Ed è complicato. Matteo Metullio, ad esempio, ha rinunciato alle Stelle per tornare a casa sua. Non condivido ma capisco”.

Passa molto tempo ai fornelli?

“Il giusto, quello necessario per organizzare quanto serve. In più sperimento, tutti i giorni”.

Progetti futuri?

“Diversi. Vogliamo ampliare quello che già stiamo facendo. Appena avrò tutto più chiaro, ne parlerò”.



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