“(…) così ho invidiato la gente che vive a Milano
e le forme di vita di un pianeta lontano
e chi ha perso tempo per capire il mondo
e chi ha perso tutto per scoprirsi a fondo
avrei voluto scoprire altri punti di vista
e come stanno le cose e dove sei te”
(Milano – Luca Carboni)
Se continuo così, ci prendo la residenza.
A Milano, intendo.
E non sarebbe nemmeno un brutto andare, credetemi.
Lo sapete, non ve l’ho mai negato: sono un romano orgoglioso delle proprie origini. Solo chi conosce le proprie radici, può viaggiare e con il vento in poppa, verso nuove destinazioni. Per questo cerco di vivere, e soprattutto capire, tutte le città in cui mi capita di soggiornare. O anche semplicemente di passare. Difficile fare in maniera diversa: un atteggiamento simile non sarebbe affatto compatibile con il mio mestiere. Il road trip, per sua natura e senza bisogno di spiegazioni, ti porta a frequentare gli altri. E quindi il Mondo. Essere troppo “chiusi” o troppo “rigidi” non aiuta. Non che sia impossibile viaggiare, anzi. Conosco centinaia di colleghi che spostandosi da una nazione all’altra, per seguire eventi e poi scrivere articoli, non hanno conosciuto nient’altro che le hall dei propri alberghi. Se non le loro uniche stanze. Io non appartengo a questa schiera. Ho il bisogno fisico di conoscere e approfondire. E c’entra poco il mio lavoro. Quello è arrivato in un secondo momento. In precedenza c’era solo la curiosità. Roba che, in grande quantità, rimane tutt’oggi. E la voglia di raccontare tutto quello che mi passava davanti agli occhi.
Anche questo lo sapete e da tempo. Da bambino sognavo di fare lo scrittore. Ho esagerato, ottenuto di più, sorpassato a destra i miei sogni.
Scrivo. Mangio. Viaggio.
Potrebbe essere il titolo per un libro da cui trarre un film con Julia Roberts, se mi passate la battuta…
Ma torniamo a Milano. E al meraviglioso sole che oggi splende sulla città meneghina. Alzo gli occhi: sulla mia testa c’è un cielo talmente limpido da sembrare dipinto. Ne ho sentito parlare a lungo e non so se si tratta solo di un’impressione, fatto sta che quello che si dice sul cielo di Milano è assolutamente vero. Forse è l’infinito grigiore invernale a rendere queste giornate soleggiate così belle. Non so. Quello che posso dirvi con certezza è che non ho per niente voglia di alzarmi da questi divanetti in vimini. Li ho sfruttati per gustarmi un buon caffè prima di pranzo. Lo devo alzare però: ho come la sensazione che la mia prenotazione mi bruci nella tasca della giacca.
A Milano sono di passaggio. E la cosa, ultimamente, succede spesso. In fondo questa città, anno dopo anno, diventa sempre di più un ponte sull’Europa. Quindi non accade di rado che, in partenza per o di ritorno da, mi fermi da queste parti per ricaricare le batterie in vista di qualcos’altro. Questa volta mi fermerò solo per qualche ora: nel pomeriggio avrò il treno per Roma. La Pasqua in famiglia mi attende.
Per questo motivo, e al fine di non allontanarmi troppo, ho deciso di venire a mangiare in zona stazione Centrale. Qui, e la cosa non mi sorprende, ci sono molti locali interessanti. Quello in cui ho deciso di pranzare si trova a Porta Nuova Varesine: il quartiere milanese che ospita il Ristorante Berton.
Cresciuto in Via Bonvesin de la Riva,alla corte di Gualtiero Marchesi, Andrea Berton, come tutti i Marchesi Boys, ha girato diverse cucine prima di tornare a “casa” (anche se è originario di Udine) e mettersi in proprio. Sul suo Curriculum Vitae si possono leggere nomi di attività importantissime: Enoteca Pinchiorri, Mossiman’s, Louis XV di Montecarlo. Ma è in Italia che Berton raccoglie i suoi successi più importanti: la prima Stella, infatti, arriva alla Taverna di Colloredo di Monte Albano. Traguardo ripetuto e raddoppiato al Trussardi alla Scala dove, così come era successo a Marchesi, nel 2008 e nel 2009 riesce a conquistare due macaron in sequenza. Il momento per provare un’avventura solitaria sembra essere maturo: così nel 2013 Berton si trasferisce a Porta Nuova Varesine dove dà vita al Ristorante Berton e conquista una nuova Stella nel 2014. Nonostante le tante recensioni positive, che gli hanno portato anche una visibilità tale da catapultarlo in Tv in un talent accanto a Philippe Leveillè e Isabella Potì, le altre non sono ancora arrivate…
L’ingresso di Berton è davvero fantastico: una serie di vetrate a specchio che riflettendo il panorama circostante, restituisce un senso di profondità davvero notevole. La percezione è confermata anche entrando in sala: è lunga, spaziosa, potrà contenere una cinquantina di commensali. Non è la sola. Alla principale, infatti, va aggiunto uno spazio isolato, da una decina di posti, utilizzato per meeting ed eventi privati. Per i più curiosi, poi, c’è anche la possibilità di mangiare direttamente in cucina: al suo interno, infatti, c’è un tavolo per due che permette di gustare le specialità di Berton senza distogliere lo sguardo dalla sua brigata a lavoro. A proposito, la squadra dell’allievo di Marchesi si compone di quindici persone, sette delle quali si trovano in sala. Chiaramente uno di loro è destinato al mio tavolo: è proprio lui a parlarmi dei piatti che è possibile mangiare. Si può ordinare alla carta, così come provare il menu degustazione o quello interamente dedicato al brodo. Avendo in previsione un viaggio molto lungo e, soprattutto, avendone la possibilità decido di optare per il lunch menu: la selezione che lo chef garantisce a tutti i professionisti (e non solo) che scelgono di mangiare nel suo ristorante per affrontare la pausa pranzo.
Insieme al sommelier decido di abbinarci una calice di vino: un Cursalet Dogliani dell’azienda agricola Gillardi che segue le bollicine d’apertura garantite da un Brut Maximum Ferrari.
La mise en place è fantastica: i colori dominanti sono il bianco e il nero. Il bianco dei piatti e del poggia posate e il nero dei tavoli rigorosamente senza tovaglia.
Il tutto si apre con una serie di amuse bouche: un croccante di benvenuto con sfoglia di grana padano e patate, riso soffiato e nero di seppia; un tacos di sedano rapa scottato e farcito con rucola, grana padano e aceto balsamico. Lo trovo ottimo e croccante al punto giusto. Continuiamo con un cannolo di mais pecorino e pesto (un’esplosione di freschezza), delle tartellette di ventresca di tonno e lime (ottimo mix tra la morbidezza e la croccantezza), un panino soffice con gelatina di pomodoro eun panino barbabietola e uova di trota
In attesa dei main courses, al tavolo ci viene portato il pane: sfogliato con olive taggiasche, sfoglie di pane al finocchietto e grissini tirati a mano.
Si va avanti con i piatti veri e propri: le capesante con purea di carota e pop corn di amaranto e la guancia di vitello purea di patate, porro e chips alla paprika. Devo essere sincero: non si può dire che i piatti di Berton non siano ottimi e ben realizzati. Specie la capasanta in cui idea, realizzazione e gusto riescono a mescolarsi in maniera perfetta. Ma la guancia di vitello mi sembra un piatto fin troppo semplice per un ristorante stellato. Anche se per un lunch menu.
Si chiude con i dolci: una tartelletta con crema di vaniglia e mango e, soprattutto, la pizza a modo nostro: meringa, lampone, fragoline di bosco e mozzarella ricreata. Va mangiata sorseggiando la La La Blend: una birra realizzata con lampone e lavanda, ottima per accompagnare un dessert tanto divertente quanto gustoso. Uno dei piatti più riusciti.
Apprezzata la piccola pasticceria , mi do alla mia solita ispezione dei bagni (puliti, profumati e spaziosi, anche se non ho capito a cosa servisse un paio di scarpe tenuto sotto teca…) e dopo aver pagato il conto, decido di lasciarmi andare alle ultime considerazioni.
Come ho già detto in precedenza, non si può dire che nel ristorante di Berton ci si trovi male. Il personale è presente ma discreto, i piatti, anche con la sala piena, vengono consegnati con grande celerità oltre che spiegati meravigliosamente. Ecco, i miei dubbi stanno nel fatto che nulla mi ha fatto sobbalzare dalla sedia. Ma la cosa, credo, può dipendere anche da me: il lunch menu non permette di apprezzare a fondo la cucina di Berton. Tornerò un’altra volta. Ormai ci ho preso gusto.
