Pizza, unicità dell’offerta, materia prima corretta e professionalità sono gli ingredienti da usare. Sempre e comunque
Parola d’ordine: PIZZAAAAA! Bistrattata per anni dall’alta ristorazione, quella ampollosamente chiamata Fine Dining (ovvero, i posti dove “se va per magnà bene”, anzi benissimo), la mitica pizza ha progressivamente ripreso il suo posto nella ristorazione, in tutti i suoi segmenti e tipologie. E da piatto nazionalpopolare, umile e gustoso, è diventata una pietanza un po’ gastrofighetta, diciamolo schiettamente. Il cambiamento, prima ancora che nella pizza, è stato nella società. Nulla di male, anzi.
Ormai la pizza è coprotagonista legittima delle performance di chef più o meno grandi, oltre che di chi è -ovviamente- pizzaiolo da generazioni. Da quando, una ventina d’anni fa, Simone Padoan (Tigli) e Renato Bosco (Saporè) dimostrarono al mondo che si possono e devono utilizzare ingredienti sempre e solo di prima qualità, oltre che ricercati e fuori dagli schemi tradizionali (e vecchiotti) del modello “Quattro stagioni”, la Pizzamania si è affermata e diffusa, come fosse un’epidemia.
Mi piace ricordare Rino Francavilla, il pizzaiolo per eccellenza che introdusse nella sua Vecchia Napoli di Milano l’innovazione all’interno di un mondo allora immobile. Già negli anni Ottanta, Rino sosteneva che anche nella pizza “bisogna osare, e usare tutte le materie prime che danno emozione”.
Ed è proprio l’emozione la molla che dovrebbe accompagnare la degustazione di una pizza fatta a regola d’arte, con le farine giuste e gli ingredienti corretti, prima ancora che ortodossa, tradizionale o innovativa ad ogni costo.
Non a caso un grande chef come Carlo Cracco, che da sempre comprende il valore dell’emozione in un’esperienza gastronomica che si rispetti, inventò a suo tempo una pizza straordinaria, semplicemente in due versioni. Una proposta che suscitò qualche polemica (insopportabilmente demagogica) su argomenti come prezzo, valore, ricarico, materie prime. Ma sul tema dei prezzi torneremo un’altra volta, non essendo questo il focus che mi interessa esaminare qui; in fondo penso che nessuno debba sentirsi obbligato a mangiare la pizza di Cracco o a frequentare il Crazy Pizza di Briatore.
Il discorso è un altro: al di là dell’ossessione per la pizza, quei consumatori evoluti che hanno esperienze di alta cucina, talvolta, vorrebbero diversificare e scoprire pizze buone, non necessariamente destinate a stupire ma a raccontare storie vere di persone, di territori, di ingredienti.
Dobbiamo tanto a Gino Sorbillo, pizzaiolo imprenditore che portò nei suoi format la cultura degli ingredienti, con tanto di codificazione (indicata nei menù) delle materie prime utilizzate per le sue pizze e cercò di creare il suo business (legittimo, nessuno fa beneficenza) seguendo una sua precisa filosofia.
Anche altri ci provarono, ma spesso finirono per trasformare grandi brand di pizzerie, inizialmente riconosciute come di buona qualità, in una sorta di “catene” o catenelle nelle quali si intravvede un rischio di “serialità” che viene percepito come mancanza di autenticità e di riconducibilità a un professionista con tanto di nome e cognome.
E allora, ben vengano quei cuochi, quegli chef e quei pizzaioli che hanno un obiettivo comune. Essere imprenditori, certo, ma con l’occhio attento alla qualità, che deve essere elevata e alla possibilità di replicarla, questa qualità, mettendoci il nome e senza stravolgere la percezione di unicità che vogliono comunicare.
Il marketing si è allargato forse troppo in questo mondo e ha creato degli standard che, a loro volta, hanno rafforzato una sorta di “pensiero unico”. Ovvero: una certa farina, un certo pomodoro, un certo pelato, una certa mozzarella, et voilà, il gioco è fatto! E i pesci abboccano….No, non ci piace questo approccio; unicità dell’offerta, materia prima corretta e professionalità sono gli ingredienti da usare. Sempre e comunque. La pizza non ammette (o non dovrebbe ammettere) furbizie né scorciatoie.
Per essere credibili, oltre che per vendere una buona pizza, che sarà apprezzata (e pagata) il giusto, ci deve essere una passione, un amore preliminare, un talento fatto di attenzione alla materia e agli ingredienti migliori. Troppa ricercatezza, in questo settore, rischia di far implodere un segmento di offerta in cui è la semplicità dei sapori a dover emergere.
Inevitabile, a questo punto, citare grandi maestri dell’impasto come Ciro Salvo, pizzaiolo da generazioni, che lavora anche sul tema della digeribilità della pizza stessa. O Franco Pepe che ha sempre difeso e sostenuto a spada tratta il concetto di artigianalità del prodotto. O Francesco Martucci dei Masanielli, a Caserta…
Nomi che sono diventati una sorta di celebrity star di questo mondo. Ma, accanto a loro, mi piace ricordare i battitori liberi, come i pizzaioli dell’Ideale di Como, quelli magari meno esposti mediaticamente ma con un grande savoir faire in materia pizzaiola. Fra gli altri, penso a Starita a Materdei a Napoli e all’Arco della pace a Milano, pizzaioli dal 1901. La loro Margherita con pomodorini crudi e basilico resta un capolavoro indiscusso del gusto.